Rimini, Firenze, Roma, Lecce sono solo gli ultimi tragici scenari delle aggressioni verso le donne. In alcuni casi le violenze vengono presentate dagli organi di stampa come frutto di un raptus di follia, di un momento di cieca gelosia. Ma è davvero così? Anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca è stato chiesto di commentare la situazione sulla violenza di genere a Sara De Vido (foto), docente di diritto internazionale a Ca’ Foscari, vice-direttrice del Cestudir, Centro studi sui diritti umani di Ca’ Foscari, co-fondatrice del Women in international law network del Manchester international law centre (UK) e autrice del libro “Donne, violenza e diritto internazionale. “I casi citati sono tutti casi di violenza di genere contro le donne, che va intesa, come recentemente ribadito dalla General Recommendation N. 35 del Comitato ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), adottata lo scorso luglio, quale forma di discriminazione”; “uno dei mezzi sociali, politici ed economici attraverso i quali viene perpetuata la posizione subordinata delle donne nei confronti degli uomini e il loro ruolo stereotipato nella società”. Lo stupro, la violenza domestica, lo stalking, il femminicidio, la violenza nel web, le molestie sessuali, la violenza subita da migliaia di bambine e donne nei territori di guerra, colpiscono le donne in quanto donne. Rhonda Copelon, nota giurista statunitense, oltre vent’anni fa scrisse che la violenza basata sul genere non include ogni forma di violenza contro una donna; si tratta piuttosto di una violenza caratterizzata dal fatto che una donna è l’obiettivo in quanto donna. Ed è frutto, ce lo dicono gli strumenti giuridici internazionali, delle “relazioni di potere ineguali tra uomini e donne”, della discriminazione de facto che persiste nelle pieghe della società, celata dietro una fondamentale, ma non sufficiente, parità di genere giuridica. De Vido ha aggiunto “Non si possono tacere episodi di violenza contro altri generi, da qui l’importanza della definizione di violenza di genere contro le donne e non solamente di violenza contro le donne. Tuttavia, secondo i dati più recenti pubblicati in un’indagine del Ministero della Giustizia italiano, relativa al periodo 2012-2016), nell’88,5% dei casi l’autore del reato è un uomo e la vittima è una donna. Dalla lettura di oltre 400 sentenze relative ad assassinii di donne emesse tra il 2012 e il 2016, è emerso che nell’85 per cento dei casi si è trattato di femminicidio. La violenza contro le donne non conosce limiti culturali o geografici: è presente, permea le società, si alimenta di stereotipi sulle donne, è ‘strutturale’ come ci dicono bene gli strumenti internazionali e per sradicarla sono necessarie misure capaci di rispondere alle violenze garantendo riparazione alle vittime ma anche di intervenire sulla visione stereotipata della donna, sul suo ruolo nella società. Non è un caso che alcuni episodi di violenza siano stati talvolta ignorati e, forse ancor peggio, giustificati dalla comunità di appartenenza della vittima e del perpetratore invocando un comportamento della vittima che la comunità stessa riteneva inappropriato”. “L’Italia è parte – ed è stata tra i primi paesi a ratificarla – della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, in vigore dal 1 agosto 2014. Ancor prima dell’entrata in vigore dello strumento giuridico sul piano internazionale, in Italia è stata adottata la legge 15 ottobre 2013 n. 119 nota come legge contro il femminicidio. Nonostante gli importanti cambiamenti introdotti da questa legge – vedi ad esempio l’obbligo di informare costantemente la vittima del procedimento in corso contro il perpetratore, l’introduzione del reato di violenza assistita, la previsione di aggravanti nel caso di violenza commessa contro donne incinte, etc. – il numero di femminicidi non è diminuito e i centri a sostegno delle vittime faticano a fornire i servizi di base perché privi di risorse. Nel marzo 2017 la Corte europea dei diritti umani ha riscontrato la violazione da parte dell’Italia degli articoli 2, 3 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (rispettivamente diritto alla vita, divieto di tortura, trattamento inumano o degradante, divieto di discriminazione) relativamente al caso Talpis, un caso di violenza domestica culminato nel 2013, quando Andrei Talpis – più volte segnalato alle forze dell’ordine dalla moglie come pericoloso – colpì a morte il figlio di 19 anni che si era interposto tra il padre e la madre durante l’ennesimo atto di violenza. La Corte ha sottolineato che gli Stati, soprattutto gli Stati parte della Convenzione di Istanbul quali l’Italia, hanno particolari obblighi nella prevenzione della violenza e che era necessario considerare nei procedimenti la “peculiarità” degli atti di violenza domestica. Nello specifico, la Corte, chiamata ad accertare violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ha fatto riferimento ad alcuni articoli della Convenzione di Istanbul, i quali prevedono che gli Stati adottino le necessarie misure legislative o di altra natura per assicurare che le indagini e i procedimenti giudiziari in relazione a tutte le forme di violenza “siano condotte senza indugio ingiustificato” e per garantire che le autorità competenti rispondano a tutte le forme di violenza prontamente e in modo appropriato così da offrire protezione adeguata ed immediata alle vittime. Il richiamo alla Convenzione di Istanbul può ritenersi il mezzo per interpretare le disposizioni della Convenzione europea sui diritti umani secondo un approccio di genere.
Recentemente, nel rapporto sull’Italia del 24 luglio scorso, il Comitato ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), ha riconosciuto gli elementi positivi della nuova normativa italiana, ma ha altresì raccomandato al nostro Paese, tra l’altro: di valutare la risposta data dalle autorità alle denunce di violenza e di introdurre una formazione obbligatoria per i giudici, i procuratori, gli ufficiali di polizia per assicurare delle procedure gender-sensitive; di incoraggiare le vittime a denunciare i casi alla polizia; di rafforzare la protezione e l’assistenza fornita alle donne vittime di violenza, inclusa la capacità dei rifugi che devono ricevere le risorse umane, tecniche e finanziarie necessarie per rispondere ai casi di violenza”. Ha aggiunto: “Con riferimento allo stupro, la Convenzione di Istanbul lo definisce come “atto sessuale non consensuale” e indica che il consenso “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. Nel diritto contemporaneo, lo stupro si è caratterizzato per l’assenza del consenso; anzi, la mancanza di consenso ne è elemento costitutivo e rende lo stupro un atto “violento”. In Italia, solo con legge 15 febbraio 1996 n. 66, la violenza sessuale è stata inclusa – articolo 609 bis del codice penale – nel titolo dei reati contro la persona; fino a quel momento, lo stupro era punito non in quanto reato contro la vittima, ma in quanto comportamento contro la “morale pubblica e il buon costume”. Il presupposto del reato secondo l’ordinamento italiano è la costrizione all’atto sessuale, mediante minaccia, violenza o abuso di autorità, non soltanto l’assenza di consenso come invece emerge dalla definizione della Convenzione di Istanbul. Sul consenso all’atto sessuale si è pronunciata a più riprese la Cassazione, ritenendo ad esempio che il consenso agli atti sessuali “deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità […] integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso” (sentenza 29 gennaio 2008, 4532). Una riforma del codice penale italiano potrebbe porre al centro l’assenza del consenso quale unico elemento caratterizzante dei reati di stupro e violenza sessuale. Sul recente caso di Firenze, i cui fatti sono ancora in corso di accertamento da parte delle autorità, gli imputati del reato di stupro ai danni di due studentesse statunitensi sono organi dello Stato. In un episodio di violenza compiuto da militari, lo stupro è stato definito dalla Corte interamericana dei diritti umani quale forma di ‘violenza istituzionale’, grave al punto da far scattare la responsabilità dello Stato per violazione del divieto di tortura (Rosendo Cantù c. Messico, 31 agosto 2010). Si tratterebbe di una forma di abuso “specialmente grave e ripugnante – afferma con estrema chiarezza un’altra corte regionale, la Corte europea dei diritti umani – data la facilità con cui un ufficiale può sfruttare la vulnerabilità e la resistenza indebolita della vittima” (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997)”. Questa intervista è pubblicata sul Magazine di Cà Foscari che si conclude sul ruolo degli organi di informazione che trattano gli espisodi di violenza sulla donne. “Data l’influenza dei mass media nella società, la Convenzione di Istanbul (e le raccomandazioni della CEDAW all’Italia di luglio scorso) incoraggia i media ad adottare delle norme di autoregolazione con lo scopo di prevenire la violenza contro le donne. In alcuni casi lo stupro da parte di uno sconosciuto viene ritratto dalla stampa come un episodio di eccezionale ed imprevedibile crudeltà criminale – crudele lo è, eccezionale ed imprevedibile molto meno – compiuto da uno psicopatico, un mostro, soprattutto nei casi in cui il colpevole non appartiene alla comunità di riferimento, come nel caso di Rimini. L’effetto è quasi storpiante, perché l’attenzione si muove con rapidità dal diritto individuale della vittima violato all’interesse della comunità che si sente lesa nella sua libertà. Se ci spostiamo dentro le mura domestiche, ecco che la violenza degli affetti, ha proseguito la docente di Cà Foscari, viene talvolta dipinta dai media come un crimine scatenato da un raptus di gelosia, da un comportamento della donna, dall’abuso di alcol o altre sostanze. Piuttosto esemplare, sempre per citare fatti recenti, è stato il caso del femminicidio di Udine, dove la giovane Nadia Orlando perse la vita per mano del fidanzato. L’attenzione, come talvolta avviene, si è concentrata pesantemente sulla condotta della donna, su eventuali testimonianze di tradimenti da lei commessi ai danni del partner, come se questo dettaglio potesse giustificare o anche spiegare la violenza. Ha qualsivoglia rilevanza? Di recente sono stati pubblicati in alcuni giornali una serie di “consigli” per le donne sui “comportamenti” da tenere o i “luoghi da evitare”. Non è forse un modo per perpetuare discriminazioni di genere e dipingere la donna come soggetto vulnerabile?“. De Vido, infine, sul piano dell’istruzione, ha ricordato che a Ca’ Foscari, da anni, “molte colleghe inseriscono nei loro corsi riflessioni e spunti di ricerca sulla parità di genere, sui diritti delle donne, sui generi, lasciando un segno negli studenti e nelle studentesse che li frequentano, scrivono articoli e dirigono centri di ricerca e collane di volumi su questi temi. Da quest’anno, faccio parte di un team di colleghe di diversi dipartimenti che ha creato il minor ‘Genere, generi: uguaglianza e parità nella società e nel lavoro”.