Di sicurezza sul lavoro si parla di solito solo quando dalle cronache si apprendono notizie di incidenti tragici come quello alla ThyssenKrupp di Terni, che nel 2007 costò la vita a sette operai, o quello recente alle Acciaierie Venete di Padova. Eppure su questo tema l’attenzione dovrebbe essere sempre alta: secondo l’Inail solo nel 2017 sono state presentate 635.433 denunce di infortuni sul lavoro (-0,2% rispetto al 2016), 1.029 delle quali con esito mortale (+1,1%). E quest’anno la situazione è addirittura peggiore: nei primi tre mesi del 2018 le morti sul lavoro sono state 212, addirittura l’11,58% in più rispetto allo stesso periodo del 2017. E in questa drammatica classifica il Veneto è al secondo posto poco dopo la Lombardia, che però ha più del doppio degli abitanti. “Non parliamo però di tragiche fatalità: si tratta di eventi che in buona misura potrebbero essere evitati”, ha spiegato Devi Sacchetto, docente di sociologia del lavoro presso l’università di Padova. Sul BoLive, il giornale web dell’ateneo di Padova, Daniele Mont D’Arpizio ha scritto un testo sulla situazione nel Paese, citando molti dati. In Italia sono oltre 1.000 le ‘morti bianche’ ogni anno. Se è vero che – sempre secondo l’Inail – negli anni gli infortuni sono diminuiti (nel 1963 furono 1.577.352, di cui 4.644 mortali) e che, anche a livello europeo, l’Italia ha un’incidenza inferiore rispetto alla media di altri Paesi (1.516 infortuni non mortali su 100.000 occupati nel 2015, contro i 3.490 della Francia e i 2.091 della Germania), sta di fatto che in Italia di lavoro si continua a farsi male e a morire. Soprattutto in un momento in cui la tanto agognata ripresa sembra tornare a spingere un’occupazione sempre più parcellizzata e priva di tutele: “Spesso i proclami sull’industria 4.0 nascondono realtà composite e molto diverse tra loro – ha continuato Devi Sacchetto –, da quelle a forte carattere tecnologico ad altre molto più povere, che il precariato rende addirittura difficili da tracciare”. È il caso ad esempio di coloro che lavorano con la Share economy: “Di solito non sono inquadrati come dipendenti, quindi se si fanno male mentre lavorano sono fatti loro e i loro infortuni non figurano nemmeno nelle statistiche”. Oggi insomma c’è una divaricazione molto forte tra diverse forme di occupazioni, di tutele e anche di pericolosità: “Se da un lato c’è effettivamente un’espansione delle mansioni legate agli aspetti più innovativi della cosiddetta ‘economia della conoscenza’, dall’altra c’è anche la crescita di settori molto tradizionali e a basso valore aggiunto”. È il caso dei riders che operano nel campo delle consegne a domicilio, tra cui ci sono anche numerosi studenti universitari e laureati: “Le app con cui lavorano hanno come obiettivo tempi di consegna veloci, sicché in certi casi le regole del codice della strada sono piegate a queste esigenze”. Maggiore precarietà e salari più bassi significano meno formazione, quindi anche meno sicurezza: “Se il personale dipendente viene formato è evidente che il rischio di infortuni viene abbattuto. Provi a pensare a un lavoratore interinale, che spesso all’inizio non sa nulla delle mansioni che gli saranno affidate e si trova catapultato in un ambiente di lavoro che non conosce”. L’idea che si debba imparare il mestiere prima di prendere rischi oggi è saltata un po’ dappertutto: “Una volta erano gli operai anziani a spiegare ai giovani come stare lontani dai guai e non spaccarsi la schiena, con l’idea che magari avrebbero fatto lo stesso lavoro per 30 anni – ha proseguito Sacchetto –. Oggi in molti casi questo spirito di corpo sembra essere sparito: conta solo fare in fretta e spesso ci si arrangia come si può. D’altra parte, la frammentazione dei processi produttivi attraverso gli appalti e i subappalti esaspera queste situazioni di pericolo perché sovente sono i lavoratori di queste imprese a essere coinvolti negli infortuni. Oggi i migranti sono fondamentali in tutti processi produttivi, in particolare quelli più pericolosi. Quindi la richiesta di una sempre maggiore velocità nei processi produttivi e distributivi, unita alla precarizzazione della manodopera, rischiano di rendere sempre più pericolose le condizioni dei lavoratori. Ma c’è anche un altro dato di fatto: “i migranti sono fondamentali in tutti processi produttivi, in particolare quelli più pericolosi: avrebbero bisogno di un supporto particolare su formazione e sicurezza – ha spiegato lo studioso –. Bisognerebbe trovare forme di mediazione più efficaci per superare le difficoltà linguistiche, soprattutto per evitare che la gente si faccia male”. Intanto, nell’epoca dei social, le aziende sembrano sempre più impenetrabili al mondo esterno: “mi occupo di imprese da anni, e non è mai stato così difficile parlare con i lavoratori di quello che accade al loro interno, anche perché spesso devono firmare carte che li obbligano alla riservatezza. E spesso i più disponibili a parlare sono proprio gli stranieri”. Per migliorare le condizioni dei lavoratori “la politica potrebbe dare un contributo rendendo più chiare le responsabilità in gioco e investendo più risorse sugli ispettorati del lavoro e gli Spisal (i Servizi prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro delle Ulss): non per penalizzare le imprese ma per aiutarle a migliorare sul fronte della sicurezza”. Sul versante tecnologico è stato detto infine che “i processi produttivi più pericolosi potrebbero essere automatizzati, come sta accadendo già in molte parti del mondo – ha concluso Sacchetto –. In questo in Italia siamo in ritardo, data la nostra struttura produttiva incentrata sulle piccole imprese e i livelli salariali bassi, che scoraggiano gli investimenti”.