Damiano Martin suL Vivipadova, il giornale degli studenti dell’ateneo, ha scritto sul servizio civile e sulla sua esperienza.
“Me lo ricordo, nitido, lo spot del Servizio civile nei primi anni 2000. La musica in sottofondo che salutava il mondo; due ragazzi, rigorosamente maschio e femmina, che aiutavano nonni e disabili. Quello spot, intriso di buonismo e sorrisi, suo malgrado era diventato arma di scherno tra i banchi delle medie: risatine, prese in giro. Il messaggio di quella pubblicità per i ragazzini tra i 12 e i 14 anni era ben chiaro: fare il Servizio civile è da sfigati. A 13 anni si sa gran poco della vita; sembra tutto automatico, pre-impostato e pre-confezionato. Basta eseguire quello che viene impartito. Stop. Giro di situazioni, dinamiche e risate che presto abbandonano una sciocchezza e si passa ad altro. Il Servizio civile fa il suo corso, raggiunge traguardi, passano decadi e si riprende. Io anche: superiori, diploma, università. In mezzo, tanto volontariato. Ecco che due strade si incrociano: il percorso accademico e lo spirito sociale. Toh, chi si rivede: e la conseguenza è la deliberata scelta di farsi prendere in giro dal tuo passato. Ma non sembra più tanto sfigato, il Servizio civile, anzi. Pare una buona occasione. Certo, la paga non è delle migliori, ma chissenefrega. Dal volontariato gratuito a più di 400 euro al mese: il piuttosto è migliore del niente. E poi, sembra un bel trampolino: continuare a scrivere, come si è fatto per tre anni, aggiungendo organizzazione, lavoro a medio termine e un certo metodo. Potrebbe tornare utile, no? Non ho mai fatto lavoro da “ufficio”, magari mi sferza, mi obbliga ad alzarmi dal letto a orari più umani, meno viziati. Ed è un’occasione grande così: perché quei 400 euro, certi almeno per 12 mesi, sono la goccia necessaria nel tuo vaso per prendere il largo, permetterti un affitto in centro e vivere la città, finalmente, dopo 12 anni di pendolarismo. No, non è follia, ma un sogno a misura delle possibilità che il mondo ha da offrire. Quindi, via alla procedura: scartoffie, colloquio, graduatorie. Preso. Si comincia il 10 gennaio 2017. Anno nuovo, vita nuova: sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Badge per segnare le ore spese in ufficio. Colleghi già conosciuti, colleghi da conoscere. Sembra un gioco da ragazzi, tutto sommato, e 12 mesi non sono poi così tanti. Se non fosse per la strada da fare tra l’aspettativa, idea astratta e pressoché inutile, e la realtà, prevedibile nel suo nocciolo ma le cui sfumature non vengono mai afferrate dal pensiero. Eccola, la “fregatura”: il ritmo quotidiano; la sveglia inesorabile, ogni mattina (soprattutto il lunedì); l’adeguarsi a quel che si può, non a quel che si vuole, si desidera, si pretende. Le soluzioni sono due: sbattere la testa contro il muro, combattere i mulini a vento e tirarne fuori qualcosa, forse, dopo litri di bile versata. O adeguarsi. Che no, non significa chinare il capo e obbedire (oh, che parola pericolosa questa). Vuol dire prendere quel che si ha e farlo fruttare. Scavare, un solo punto, a fondo. Non serve per forza avere a disposizione tante cose da fare; ne basta una, da sfruttare bene e in ogni sfaccettatura. Questo è quel che porto a casa dopo 12 mesi. Esperienza; altre marce: non in più, non in meno. Allo stesso livello. Affiancate a quelle che già avevo a disposizione. Dodici mesi in cui ho appreso il valore dell’attesa, non importa se del definito o dell’ignoto. L’attesa è il tempo che ci porta dal punto A al punto B, e il regalo a nostra disposizione per impegnare il talento nel tragitto, fisico o temporale che sia. Ci si potrebbe scrivere sopra anche un’equazione matematica, per la quale all’aumentare dell’attesa, del tempo impiegato, aumenta la soddisfazione. È stato poco, in fin dei conti, questo Servizio civile. Un poco che ha permesso un affitto, una casa a cui badare, bollette, altri lavori, relazioni, storie, consapevolezza, nuove idee, una laurea che sembrava irraggiungibile. Poco. Non è stato un inizio, non è la fine. Un filo rosso, visibile solo da chi lo percorre e spiegabile solo a se stessi. C’è chi ha versato lacrime, chi ha mollato, chi ha stretto i denti e chi c’ha passeggiato sopra. In ognuno di questi casi è servito, basta impararlo. È una scelta che ti cambia la vita? Sì, basta voler farsela cambiare; come tutto. Ma in quest’ultimo anno, il 2017, inevitabilmente rimarrà appiccicata l’etichetta Servizio civile. E quindi grazie. Un pensiero ai compagni di viaggio: in bocca al lupo”. Martin ha concluso così: “Un forte augurio a chi verrà dopo: trovate il lato positivo della faccenda”.

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