gradikento tra i presidenti di Regione: in testa Luca Zaia del Veneto, già ministro dell'agricoltura.,

“Ancora una volta la correttezza dei principi con cui il Veneto opera e legifera è stata riconosciuta dalla Consulta. Dopo il referendum per l’autonomia e la legge Madia, mi auguro che questa nuova sentenza induca il Governo ad una minore conflittualità verso il Veneto, che non è il nemico, ma una Regione che conosce la legge e la rispetta, ma non rinuncia ad affermare i suoi principi e a legiferare di conseguenza”. E’ il commento del Presidente della Regione Luca Zaia dopo la decisione della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 67 del 7 aprile 2017, ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016, n. 12 promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 14 giugno 2016. Disposizione che aveva modificato la legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” introducendo in questa gli articoli 31 bis e 31 ter. “Solo tre righe dell’intera nostra legge – aggiunge Zaia – sono state bocciate con delle obiezioni di carattere sistematico, per il riferimento all’uso della lingua italiana nelle Moschee. Quanto meno Sorprendente – ironizza Zaia – poco dopo che il Ministro dell’Interno Minniti ha sottoscritto un accordo con la comunità islamica moderata italiana che prevede proprio l’uso della nostra lingua nelle moschee. Anche l’accordo del Governo è quindi da ritenersi incostituzionale?” Sul piano tecnico, per il Governo l’art. 31-bis, era da intendersi in contrasto con gli artt. 3, 8 e 19 della Costituzione nella parte in cui attribuisce alla Regione e ai Comuni del Veneto, ciascuno nell’esercizio delle rispettive competenze, il compito di individuare “i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzatture di interesse comune per servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose”, perché questo permetterebbe delle valutazioni differenziate per le diverse confessioni religiose e delle applicazioni ampiamente discrezionali e potenzialmente discriminatorie nei confronti di alcuni enti religiosi. Ciò in contrasto con le richiamate disposizioni costituzionali secondo, cui, per la Corte, come affermato in altre sentenze, “il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose”. Per il Governo la genericità e l’ambiguità della formula contenuta nell’ art. 31 – bis (“i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”) consentirebbe infatti valutazioni differenziate per le diverse confessioni religiose e applicazioni ampiamente discrezionali e potenzialmente discriminatorie nei confronti di alcuni enti religiosi. La Corte Costituzionale ha ritenuto invece che la disposizione non si pone in contrasto con i richiamati principi, perché prende in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa – la Chiesa Cattolica, le confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., e le altre confessioni religiose – senza introdurre alcuna distinzione in ragione della circostanza che sia stata stipulata o meno un’intesa tra le singole confessioni religiose e lo Stato per regolamentare i reciproci rapporti. La Corte ha ritenuto che nella legge non vi siano elementi che giustifichino un’interpretazione tale da consentire alla Regione e ai Comuni di realizzare la pianificazione di attrezzature religiose secondo criteri e modalità discriminatori. Ma ha ritenuto piuttosto che sia “conforme al dettato costituzionale la possibilità che le autorità competenti operino ragionevoli differenziazioni”. E, in tal senso, sottolinea che “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”. La paventata lesione dei principi costituzionali invocati, dunque, non discende dal tenore della disposizione censurata in sé, ma da quelle che potranno essere delle eventuali sue illegittime applicazioni. Le quali, se a loro volta eventualmente discriminatorie, potranno essere censurate, caso per caso, nelle opportune sedi giurisdizionali.
Con la stessa sentenza la Corte ha ritenuto invece incostituzionale – per delle inusuali obiezioni di carattere sistematico – all’art. 31 ter, comma 3, della l.r. 11/2004, limitatamente all’espressione: “Nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”. La norma, nel disciplinare gli interventi comunali di urbanizzazione per le aree e gli immobili da destinarsi alla realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, prevede infatti, al suo comma 3, che il soggetto richiedente la realizzazione dell’attrezzatura sottoscriva con il Comune una convenzione contenente un impegno fideiussorio, nella quale “può” anche essere previsto l’impegno dell’istituzione religiosa contraente ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. La Corte ha ritenuto che una tale convenzione, a valenza urbanistica, sia “palesemente irragionevole in quanto incongrua sia rispetto alla finalità perseguita dalla normativa regionale in generale – volta a introdurre «Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio» –, sia rispetto alla finalità perseguita dalla disposizione censurata in particolare – diretta alla «Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”.

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