La notizia è di quelle che fanno sensazione e proviene da una fonte autorevole: secondo la rivista Science gruppi di ricercatori starebbero tentando di studiare il cervello degli uomini di Neandertal tramite tessuti ricreati in laboratorio con l’ingegneria genetica. Daniele Mont D’Arpizio ha scritto un testo su Bo Live, il giornale web dell’ateneo di Padova. Per ora non sono stati ancora pubblicati studi scientifici, ma intanto l’annuncio è stato dato durante un convegno da Alysson Muotri, genetista presso la School of Medicine della University of California, San Diego (UCSD). Chi comunque pensi a scenari da Frankenstein, con cervelli umanoidi pronti a scappare dalle loro teche di cristallo, per il momento resterà deluso. Il primo passo è stato estrarre alcune cellule dalla pelle di un uomo adulto sano e di “lavorarle” per trasformarle in cellule pluripotenti, capaci cioè di trasformarsi anche in altri organi e tessuti (cerebrali in questo caso). Successivamente in alcune di queste cellule è stato scambiato un gene con il corrispondente neandertaliano; è denominato NOVA1 ed è noto soprattutto perché gioca un ruolo importante nello sviluppo cerebrale: per questo oggi il suo malfunzionamento è stato ricollegato da alcuni studi a sindromi come l’autismo e la schizofrenia. “ Chi pensa a scenari da Frankenstein, con cervelli umanoidi pronti a scappare dalle loro teche di cristallo, per il momento resterà deluso. In questo modo i ricercatori hanno ottenuto due diversi tipi di organoidi, minimodelli di organi in vitro: normali e neandertaliani; successivamente sono state osservate le differenze tra i due diversi tipi di tessuti e si è concluso che quelli ‘preistorici’, oltre a una forma diversa (simile a quella dei popcorn), presentano anche meno connessioni sinaptiche. Si tratta di ricerche ancora agli inizi, ma che promettono già di rivoluzionare il nostro modo di studiare i nostri progenitori; per questo è stato chiesto un parere Guido Barbujani, genetista presso l’università di Ferrara: “La speranza è di capire qualcosa in più sul il cervello dei Neandertal”, ha detto al Bo Live lo studioso, autore di numerosi studi e di un libro divulgativo sull’argomento. “Il grave problema che vedo in questa ricerca – peraltro fantastica, con un’impostazione che cinque anni fa nessuno avrebbe potuto nemmeno lontanamente concepire – è che il nostro cervello si sviluppa sotto l’effetto non di uno o due, ma di migliaia di geni in concerto tra loro. In pratica è come se prendessimo un’orchestra di cento elementi e cambiassimo una corda di un solo violino”. In effetti l’esperimento per il momento riguarda solo uno dei circa 200 geni che presiedono la codificazione delle proteine che distinguono la nostra specie dai Neandertal. La tecnica utilizzata è CRISPR (“cluster regularly interspaced short palindromic repeats”): la vera rivoluzione degli ultimi anni in ambito genetico. Un metodo economico, applicabile a quasi tutti gli esseri viventi, per tagliare e cucire i geni con un precisione mai sperimentata prima, e che a pochi anni dalla sua scoperta ha già dato luogo a migliaia di studi scientifici (come mirabilmente spiegato dalla giornalista scientifica Anna Meldolesi nel libro E l’uomo creò l’uomo, quest’anno nella cinquina finalista del Premio Galileo). Perché investire in questo tipo di ricerche? “C’è una naturale curiosità verso i nostri parenti stretti, ancorché i Neandertal non siano nostri progenitori. Immagino che per chiunque si occupi del mio campo giudicherebbe molto interessante la possibilità di incontrare l’australopiteco Lucy o un Neandertal. Fino a pochissimo tempo fa tutto ciò che avevamo di queste creature erano le ossa e le pietre che usavano come utensili o attrezzi. L’idea di ricostruire qualcosa del loro mondo mentale è un’idea affascinante”. Per il momento comunque il team americano prosegue nel suo percorso: lo stesso Muotri anzi ha paventato durante il convegno un passo avanti ancora più importante e per certi versi inquietante: quello di collegare in futuro gli organoidi neandertaliani – ribattezzati neanderoidi – a dei piccoli robot a forma di granchio, per vedere se i minicervelli riescono modo in qualche modo a prenderne il controllo e studiarne i comportamenti. Una prospettiva fantascientifica che per il momento, oltre a incontrare la perplessità degli studiosi, porrebbe anche non pochi problemi etici. Forse anche per questo Svante Pääbo, direttore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, mostra scetticismo sulle dichiarazioni dei colleghi statunitensi; “Per il momento gli organoidi sono lontani dal dirci come funzionano i cervelli adulti” ha detto a Science lo scienziato svedese, che con il suo team ha lavorato alla sequenziazione del DNA dei Neandertal ed è considerato uno dei fondatori della paleogenetica. Perplessità condivise anche da Guido Barbujani: “Mi pare che si stia affrontando un problema affascinante con strumenti al momento ancora insufficienti, anche sulla base delle poche cose che sappiamo sul nostro cervello: un organo di formidabile complessità ancora tutto da studiare. Anche questi robot di cui si parla mi sembrano più un modo per impressionare il pubblico, e magari ottenere finanziamenti, piuttosto che una vera e propria prospettiva di ricerca”. Questo non esclude per il futuro sviluppi promettenti: “Spesso progetti di ricerca che poi si sono rivelati di grande successo sono partiti da approcci metodologicamente molto semplici, quasi ingenui. Se poi riuscissimo veramente a ottenere qualcosa che somiglia un cervello neandertaliano e scoprissimo che questo pensa, allora si porrebbero problemi morali che andrebbero discussi molto approfonditamente”.