Il ministro della salute Giulia Grillo ha avuto modo di confermare recentemenete che la sanità in Italia è “la prima impresa del Paese con oltre 2 milioni di persone che ogni giorno vi lavorano. La filiera salute rappresenta oltre l’11% dell’intero PIL”. Dal 2001, con la riforma del Titolo V, le Regioni diventano sempre più motore della sanità grazie all’articolo 117 della Costituzione che ha spostato il centro di assunzione delle scelte organizzative e gestionali in una sede più vicina al cittadino e al territorio. Dopo 40 anni è giunta una fase per formulare un bilancio critico,
per riconoscere sia gli indubbi meriti di questo sistema che si colloca ai primi posti nel mondo per efficacia ed equità, sia le ombre e le difficoltà che ne minacciano il futuro. Partendo da queste realtà numeriche, si è tenuto il primo febbraio un corso di perfezionamento in bioetica dell’Università di Padova per una lezione aperta al pubblico nell’Aula Magna dell’Azienda Ospedaliera di Padova
nella Palazzina dei servizi in via Giustiniani a Padova dal titolo “La sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale a 40 anni dalla sua istituzione”. Gli interventi, coordinati da Corrado Viafora, Direttore del Corso, sono stati di Daniele Donato, Direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera
di Padova, l’economista sanitario Vincenzo Rebba e l’esperto di salute pubblica Vincenzo Baldo
dell’Università di Padova. Nella sanità, come ricordato, lavorano personale medico e paramedico e amministrativo per poter erogare i necessari servizi al cittadino, ma al tempo stesso il settore, non da oggi, continua ad assorbire forti risorse economiche, numerose della quali sono gestite dalla Regioni per delega statale. Oggi, il settore ha difficoltà a recerire nuove forze di ricambio per cui ci sono segnalazioni dalle quali si ha conferma che il settore si trova in difficoltà nel reperire nuovo personale qualificato. Da qui, il groviglio di ipotesi – che debbono essere condivise da Stato-Regioni – , e gli alti costi di gestione. Ecco allora ventilate ipotesi di tagli di taluni servizi, nuove incorporazioni tra ospedali, una più oculata gestione negli acquisti di medicinali (generici o specialistici) ed altro ancora, come la dotazione di nuovi macchinari e l’applicazione di nuovi ticket a carico del cittadino. In concreto, dalla generale visione si è ancora una volta ammesso che la sanità, quella efficiente e professionale come l’attuale erogata, necessita per poter essere mantenuta sui livelli attuali, di una sua graduale revisione (nella foto team di chirurgi, archivio). Il Servizio sanitario nazionale, come noto, è stato istituito nel 1978, con la ilegge 833. La firma in calce al documento è stata posta da Tina Anselmi, già prima donna Ministro del lavoro e della previdenza sociale nel 1976, allora Ministro della sanità nel governo Andreotti. Da quella data è stata abolita la vecchia Italia sanitaria, popolata dalle casse mutue: enti competenti per categoria nell’assistenza dei lavoratori e familiari. Erano il lavoro e il censo di ciascuno che determinavano l’accesso alle migliori cure; nell’Italia del dopoguerra quello era il sistema pensato per onorare, con quel che si disponeva, l’articolo 32 della Costituzione: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Con il nuovo Servizio Sanitario Nazionale tutto cambiò: si introdussero la responsabilità pubblica della tutela della salute, l’universalità e l’equità di accesso ai servizi sanitari, una globalità di copertura in base ai livelli essenziali di assistenza, il finanziamento pubblico dei servizi attraverso la fiscalità generale, la titolarità dei diritti in tutto il territorio nazionale e la reciproca assistenza tra le regioni. Oltre all’aspetto curativo e terapeutico, assunsero rilevanza la prevenzione e la riabilitazione.
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