La tecnologia sta rivoluzionando le tecniche della ricerca archeologica, sulla terraferma come sui fondali marini. Da qualche anno gli archeosub hanno come compagni di lavoro software che trasformano le foto scattate sott’acqua in dettagliati modelli tridimensionali. E’ un’applicazione nuova di una tecnica nota: è la fotogrammetria. Dunque lo ‘scavo’ in mare diventa più rapido e sicuro. C’è Carlo Beltrame di Cà Foscari che con il suo team è tra i pochi al mondo all’avanguardia sull’utilizzo della fotogrammetria subacquea, grazie anche alla collaborazione con il laboratorio di fotogrammetria dello IUAV. Di questo tratta uno studio pubblicato del Jounal of cultural Heritage e ripreso da Science, come ricorda in una relazione sul magazine dell’ateneo veneziano Enrico Costa. Lo strumento principe diventa la reflex, con la quale scattare centinaia di immagini riprendendo il ritrovamento sottomarino da altrettanti punti di vista. La bindella metrica non va in pensione, ma viene srotolata solo per definire la ‘maglia’ topografica di riferimento. “La fotogrammetria ci permette di risparmiare molti giorni di lavoro sott’acqua – spiega Beltrame, docente di Archeologia marittima e subacquea al Dipartimento di Studi Umanistici – e a poche ore dal rilievo possiamo vedere sullo schermo del computer il modello tridimensionale dettagliato del ritrovamento, con la possibilità di calcolare volumi con un margine d’errore irrilevante. E’ un’autentica rivoluzione”. Il team ha sperimentato la fotogrammetria su diversi siti a diverse profondità e condizioni ambientali. Il nemici della fotografia, infatti, sono l’oscurità, dovuta alla profondità, la torbidità dell’acqua e la progressiva sparizione dei colori, dovuta sempre alla profondità; ma altri aspetti critici sono l’estensione e la complessità del sito e i tempi ridotti di permanenza sul fondo legati all’aumento della profondità. I soggetti delle fotografie sono i resti e i carichi di relitti di epoca antica, di cui i fondali mediterranei sono costellati. Anche grazie alle ricostruzioni 3D, i ricercatori sono in grado di capire com’era fatta la nave, quanto materiale trasportava, com’è naufragata. Gli scavi sono quelli del progetto “Le rotte del marmo” e del relitto di Cape Stoba (Croazia ), che ha disperso circa 1000 anni fa su un pendio tra i 9 e i 28 metri di profondità centinaia di anfore vinarie (foto). L’ultima missione, nell’estate 2017, ha portato gli archeosub cafoscarini a Capo Taormina. Il sito, documentato una prima volta nel 1959 da Gerhard Kapitaen, è costituito da 33 frammenti di colonne lisce disposte su un fondale roccioso tra i 21 e i 26 metri di profondità. Le indagini sono state possibili grazie alla collaborazione della Soprintendenza del Mare di Palermo, dell’impresa Idra di Venezia e del Diving Taormina. La campagna di rilievi, condotta da studenti di archeologia di Ca’ Foscari e resa possibile anche grazie ad un grant della Honor Frost Foundation, ha permesso di eseguire un modello fotogrammetrico 3D del carico e di campionare tutti i litici. Le analisi, ancora in corso al laboratorio LAMA dell’Università IUAV, avrebbero permesso di riconoscere nel marmo la tipologia detta africano verde, ossia una breccia con fondo verde scuro cavata nell’isola di Teos, in Turchia. Il peso del carico, di circa 100 tonnellate, il più piccolo tra quelli documentati in questi anni dall’equipe, ed un elemento in bronzo di giunzione della carpenteria assiale, unica testimonianza dello scafo, porterebbero alla ricostruzione di una nave lunga intorno ai 20 metri affondata in seguito all’impatto con le rocce di Capo Taormina, tra la fine del II e la fine del IV secolo d.C. Questo e gli altri modelli 3D saranno utilizzati anche per creare delle ambientazioni virtuali, ha scritto ancora Costa, così da permettere a chiunque di vivere l’esperienza di una visita su un relitto antico.