Inceneritori si o inceneritori no, modello Treviso, raccolta differenziata: l’attualità politica italiana negli ultimi giorni si è concentrata sul dibattito su un tema, quello dei rifiuti, sul quale il documento programmatico chiamato “contratto di governo” e sottoscritto dalle due forze di maggiornanza, parla chiaro. Il punto numero 4 del “Contratto di governo per il cambiamento” parla apertamente di un sistema, quello della provincia di Treviso, da prendere a riferimento per quanto riguarda il sistema di economia circolare. Antonio Massariolo per Bo Live, il giornale web dell’ateneo di Padova (foto di Bo Live, UniPd) ha scritto un testo sui rifiuti modello Treviso e si è chiesto che cos’ha di così particolare il sistema “trevigiano”, tanto da essere citato in un documento che dovrebbe segnare la linea governativa attuale e quella dei prossimi anni? In termini di raccolta differenziata Treviso è il primo capoluogo d’Italia. La percentuale di rifiuti differenziati infatti è dell’84,5%, ben oltre alla media veneta che si attesta al 72,91% (dati ISPRA 2016). Tutto il trevigiano però è sinonimo di eccellenza da questo punto di vista. Ci sono comuni infatti, come Trevignano, che arrivano a differenziare l’87,7%, con una produzione di secco residuo di 36,4 kg per abitante nel 2017. Secondo Contarina, cioè una delle due società che si occupano della raccolta (l’altra è Savno), gli utenti trevigiani nel 2016 hanno avuto una produzione pro capite di rifiuti di 386 kg. Un produzione nettamente inferiore sia alla media europea, che si attesta a 477, sia alla media italiana che è di 497 kg. La virtuosità trevigiana nasce nel 2000 e porta anche la firma dell’attuale presidente del Veneto Luca Zaia. Fu proprio il leghista, che al tempo era presidente della Provincia, a dire no agli inceneritori che Unindustria voleva costruire. Una scelta che sembra andare in controtendenza con le dichiarazioni dell’attuale segretario leghista, nonchè vicepremier, Matteo Salvini. Il modello di Treviso e dei 50 Comuni su 95 seguiti da Contarina si basa sul principio “paghi quanto produci”. La società fornisce ai cittadini un calendario e bidoncini di diverso colore e dimensioni. Al giorno prestabilito è necessario mettere fuori dalla porta di casa il bidone e la società passa a ritirarli porta a porta. Per i rifiuti speciali, come ad esempio l’olio esausto, sempre la società fornisce il bidoncino che poi verrà svuotato dall’utenza nelle isole verdi. La tariffa è costituita da una quota fissa ed una variabile proprio in base alla quantità di rifiuto “secco non riciclabile” prodotto. Anche i sacchetti della spazzatura sono consegnati dalla società e, in caso di necessità, si possono acquistare separatamente con il proprio codice personale. Il materiale non riciclabile infine, così come quello veneziano e ferrarese, viene inviato al termovalorizzatore di Padova che quotidianamente brucia una media di 454 tonnellate di rifiuti. Quando si parla di “bruciare” dobbiamo pensare non più al semplice inceneritore, bensì ad un termovalorizzatore, cioè un impianto, gestito dal Gruppo Hera, che trasforma di fatto il rifiuto non riciclabile in energia. Gruppo Hera che gestisce anche la raccolta differenziata di Ferrara ed aiuta i cittadini a capire come farla anche attraverso applicazioni come Il Rifiutologo. Proprio il capoluogo estense nei primi sei mesi del 2018, secondo le stime rilasciate dal gruppo stesso, ha differenziato oltre l’85% dei rifiuti con un fatturato di 2,6 miliardi di euro e più di 8 mila lavoratori impegnati. Un balzo che in meno di un anno ha fatto passare Ferrara dal 62% ai primi posti italiani per raccolta differenziata. Ma riciclare di più quindi, significa anche pagare meno? Non sempre purtroppo è così, ha sottolineato nel suo testo Antonio Massariolo. Bronte, in Sicilia, ad esempio differenzia il 17,2% dei suoi rifiuti, pur avendo un costo annuo di quasi 160 euro per abitante, un costo simile a quello di Trento (159,89 €/abitante per anno) che però differenzia il 78,9%. Per capire il motivo di questa disparità bisogna tornare al 2014, quando l’allora Governo Renzi ha attuato il decreto “Sblocca Italia”. Al suo interno infatti, all’articolo 35, si dice: “nei suddetti impianti (si riferisce agli impianti di recupero ndr), deve essere assicurata priorità di accesso ai rifiuti urbani prodotti nel territorio regionale fino al soddisfacimento del relativo fabbisogno e, solo per la disponibilità residua autorizzata, al trattamento di rifiuti urbani prodotti in altre regioni”. Un decreto che, a detta anche dell’attuale ministro dell’ambiente Sergio Costa durante la Commissione Ambiente al Senato del 10 luglio scorso, “è una strategia rivolta a ridurre la dipendenza delle pianificazioni del sistema di gestione dei rifiuti dalla logica delle discariche, in primo luogo attraverso la prevenzione, il riutilizzo, il riciclaggio, ed il recupero di materia, ed in secondo luogo anche attraverso il recupero energetico laddove le prime azioni non siano economicamente e tecnicamente sostenibili, in particolare proprio sui rifiuti di scarto che residuano dalle operazioni di trattamento dei rifiuti urbani indifferenziati”. Strategia però che di fatto significa che le regioni che non riescono a smaltire i rifiuti li impacchettano, li caricano a bordo dei tir e li spediscono in zone adatte allo smaltimento. Facendo un confronto Nord-Sud del paese notiamo come nel Nord Italia siano presenti 4.102 impianti di recupero (e si differenzia in media più del 64% dei rifiuti), mentre al sud gli impianti sono 777 e la differenziata è mediamente di poco superiore al 37%. Merita attenzione nella lettura anche il problema criminalità legata ai rifiuti. Nelle zone limitrofe ai comuni più virtuosi, nella giornata di giovedì sono state sequestrate oltre 280.000 tonnellate, cioè l’equivalente di 10.000 trasporti effettuati con autoarticolati, di materiali stoccati in due aree, precisamente in una cava del Comune di Paese della provincia di Treviso e un’altra area del Comune di Noale in provincia di Venezia. Materiali che, secondo le indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura Lagunare e condotte dai militari della Stazione Carabinieri Forestale di Mestre in collaborazione con il personale del Dipartimento Provinciale ARPAV di Venezia, avrebbero permesso di verificare una diffusa situazione di “illiceità gestionale” perpetuata negli anni. Secondo gli investigatori, l’azienda avrebbe miscelato il materiale contaminato, come rame, nichel, piombo e selenio, con altri rifiuti, al fine di “diluire” gli inquinanti presenti, con l’obiettivo finale di realizzare, attraverso tali rifiuti e con l’aggiunta di calce, leganti e cemento, di aggregati da utilizzarsi nel campo dell’edilizia ed in particolare per la realizzazione di sottofondazioni o rilevati stradali. In alcuni casi sui materiali prodotti è stata riscontrata anche la presenza di frammenti di cemento contenenti fibre di amianto (materiale classificato come cancerogeno). Secondo l’accusa si sostiene che una società del noalese intendeva costruire strade con materiale che di fatto aveva al suo interno agenti inquinanti. L’azienda coinvolta è una società con più di 50 anni di storia, con sede a Noale, nel veneziano e che, secondo ciò che riporta il sito del gruppo, vanta “numerose realizzazioni di grandi lavori, come il passante di Mestre, il casello autostradale di Noventa di Piave, l’aeroporto Marco Polo di Venezia, la realizzazione del fabbricato Ikea e il parco San Giuliano di Mestre”. Nel contesto Europeo emerge che la quantità di rifiuti prodotta da soli cinque stati (Italia, Spagna, Regno Unito, Germania e Francia) rappresenta il 68,4% dell’intera produzione dell’Unione Europea, intesa a 28 membri. Di tutti i rifiuti prodotti dall’Unione Europea il 26,3% sono smaltiti in discarica, il 27,% inceneriti, mentre il 29,4% è stato avviato al riciclaggio (dati Eurostat). Di queste percentuali però bisogna analizzare il dettaglio. Balza all’occhio infatti la differenza tra i vari stati, in particolar modo per quanto riguarda lo smaltimento in discarica. Germania e Malta infatti sono agli antipodi con percentuali di rifiuti in discarica rispettivamente dello 0,2% e del 92,7%. Come evidenziato dal Rapporto Ispra, “anche la Svezia, il Belgio, la Danimarca e i Paesi Bassi fanno registrare percentuali molto basse (fino all’1,4%) di smaltimento in discarica, mentre, all’estremo opposto, Cipro, Croazia, Romania e Grecia smaltiscono in discarica una percentuale di rifiuti urbani compresa tra l’80,6% e l’84,3%”. L’Italia infine, smaltisce in discarica il 29% dei suoi rifiuti urbani trattati. Parlando di inceneritori invece, l’Unione Europea ogni anno brucia circa 64,8 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, tra i quali sono compresi anche i rifiuti avviati a recupero energetico attraverso i termovalorizzatori. “L’incenerimento – è scritto ancora nel rapporto – è un metodo utilizzato in particolare dagli Stati dell’Europa centrosettentrionale, in particolare Danimarca (415 kg/abitante per anno), Paesi Bassi (245), Finlandia (239), Svezia (229), Lussemburgo (213), Austria (212), Germania (196)”. L’Italia nel 2015 ha incenerito circa 6 mila tonnellate, cioè il quarto valore più elevato nell’Unione Europea dopo Germania, Francia e Regno Unito. Sul riciclo è proprio l’Italia a farla da padrona. Secondo i dati pubblicati da Eurostat e riferiti al 2014, il nostro paese è quello che più si impegna nel riciclo, con una percentuale del 76,9%, praticamente raddoppiando la media europea che è del 37%. Guardando gli Stati a noi più vicini vediamo che la Francia ricicla il 54%, la Germania il 43% e il Regno Unito il 44%. Il primato italiano, che riguarda principalmente il riciclo di carta, plastica, vetro, metalli, legno, tessili, è dovuto anche ad una differenza sostanziale con i paesi del Nord Europa. L’autore del testo ha ricordato che gli Stati più settentrionali dell’Unione utilizzano gran parte dei rifiuti per produrre energia e quindi non li riciclano bensì li “inceneriscono”.
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