Samantha Yammine (foto), studentessa di dottorato al dipartimento di genetica molecolare all’università di Toronto è divenuta una superstar della comunicazione della scienza sui social. Con i suoi post, science.sam mostra come sia possibile svincolarsi dagli stereotipi che sono tipicamente applicati alle donne in ambito scientifico, ispira ragazze in tutto il mondo a perseguire la carriera scientifica e a trovare al suo interno una dimensione per coltivare a pieno i propri interessi, la cura di se stesse e il rapporto con gli altri. In un workshop tenutosi nella sua università, gli altri giovani ricercatori sono stati invitati a seguire l’esempio di Samantha e a usare la comunicazione della scienza come mezzo di promozione per inserirsi un domani nel mondo del lavoro. Meghan Wright, studentessa di dottorato all’istituto di biomateriali e ingegneria biomedica della medesima università, possiede una pagina Instagram, ma non la usa per promuovere la sua passione per la scienza, la dedica invece agli altri suoi interessi: la fotografia e la cucina. Francesco Suman ha pubblicato sul gionale Il Bo dell’ università di Padova un servizio ricco di informazioni. Meghan Wright ritiene che la disparità di genere sia una questione seria in ambito scientifico e che non verrà risolta attraverso le pagine Instagram: “Mostrare pubblicamente il vestito carino che indosso e il sorriso dolce che sfoggio in laboratorio non mi aiuterà a costruire una carriera in un campo in cui le donne detengono meno posizioni da strutturato, sono pagate meno e sono costantemente sottovalutate”, scrive Meghan. E aggiunge: “Le scienziate su Instagram fanno del gran bene. Ma mi disturba che questi sforzi siano celebrati come la strada maestra per combattere le profonde e radicate forme di discriminazione ed esclusione che le scienziate devono affrontare. Mi chiedo se i nostri sforzi non dovrebbero invece essere rivolti a un cambiamento delle strategie politiche a livello istituzionale e governativo”. E conclude: “Il tempo speso su Instagram è tempo sottratto alla ricerca e questo colpisce più le donne che gli uomini. Non è giusto. Non c’è niente da celebrare”. Nel numero del 13 aprile di Science, l’editore Jeremy Berg ha scelto di ospitare (con una nota) diverse lettere di risposta all’articolo di Meghan Wright. Quella intitolata Journal editors should not divide scientists (gli editori non dovrebbero dividere gli scienziati) è firmata da una rappresentanza dell’associazione 500 Women Scientistsed è una forte critica sia all’articolo di Meghan Wright, percepito come un attacco deliberato a una scienziata e comunicatrice di successo, sia all’editore, il cui comportamento risulterebbe distruttivo e irresponsabile poiché ottiene l’effetto di mettere una donna scienziata contro l’altra e perpetuando al contempo proprio quegli standard discriminatori che affliggono le donne e gli altri gruppi sottorappresentati in ambito Stem (Science, technology, engineering, mathematics). Un’altra lettera intitolata Social media for social change in science (i social media per un cambiamento sociale nella scienza) è firmata proprio da Samantha Yammine, assieme ad altre tre colleghe. Le autrici riconoscono i problemi sistemici affrontati da Meghan Wright, ma ricordano che i social media possono essere uno strumento potente per smantellare queste strutture. Inoltre i social media svolgono un ruolo cruciale nell’aiutare gli scienziati ad adempiere alle proprie responsabilità pubbliche, quali “coinvolgere il pubblico in temi scientifici, aumentare l’alfabetizzazione scientifica, promuovere la fiducia nella scienza, costruire reti di collaborazioni internazionali, raggiungendo persino la politica”. Le autrici rivendicano che molto di questo lavoro di disseminazione è fatto da donne e altri gruppo sottorappresentati, aggiungendo che per queste attività ancora non sono previsti adeguati riconoscimenti e compensi. “I selfie su Instagram non sono obbligatori – aggiungono le autrici – ma ricevono il 38% di interazioni in più rispetto a foto senza volti, favorendo il dialogo aperto con un ampio pubblico in modalità comunicative personali ed efficaci. Ricerche future stabiliranno se condividere selfie da un set di ricerca aiuti a trasmettere fiducia senza danneggiare la credibilità scientifica, e questi dati saranno usati per sviluppare strategie volte a migliorare la mancanza di fiducia nella scienza da parte del pubblico”. Secondo Samantha Yammine, i social network possono promuovere la connettività tra gruppi sociali differenti, mettere in crisi le strutture tradizionali, identificare barriere esistenti e mettere in discussione le gerarchie di potere. “I social media hanno contribuito alla nascita di movimenti politici, inclusi quelli che si occupano di sicurezza in ambito di istruzione, ricerca, equità, come la March for our lives, la March for Science, Black Lives Matter, #MeToo, e la Women’s March”. Francesco Suman ha segnalato infine che probabilmente non tutti i contenuti condivisi da scienziate comunicatrici sono prodotti con l’intento specifico di mettere in discussione lo status quo; assumere che questo sia sempre ciò che spinge le donne a comunicare la scienza è semplicemente sbagliato, scrive Victoria J. Forster in un commento pubblicato su Science: “Ci sono però attiviste che sfidano sistematicamente le discriminazioni strutturali e persone che partecipano saltuariamente a eventi collettivi come la Marcia per le donne o la Marcia per la scienza. Ci sono poi semplicemente comunicatori della scienza che sono donne” .