Il prof. Paolo Tarolli, del dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova, ha commentato uno studio pubblicato con il suo gruppo su Scientific Reports. I ricercatori – oltre a Tarolli, Giulia Sofia, Giulia Roder e Giancarlo Dalla Fontana – hanno “fotografato” cento anni di inondazioni in Veneto (1910-2010), intrecciando per la prima volta (e quantificando) fattori climatici, processi di urbanizzazione e dinamiche di inondazione su scala regionale. Di questo ne riferisce sul giornale del Bo dell’ateneo di Padova, Monica Panetto; la foto è di Massimo Pistore. “Dallo studio emerge un continuo e marcato processo di urbanizzazione del territorio – ha spiegato Tarolli – avvenuto contemporaneamente a processi climatici più aggressivi caratterizzati da piogge giornaliere più intense rispetto al passato”. In Veneto è soprattutto il ventennio compreso tra il 1970 e il 1990 a incidere pesantemente sul grado di impermeabilità del territorio. Durante gli anni Ottanta il nostro Paese diventa una delle principali economie dell’Europa occidentale, grazie soprattutto al contributo del nord Italia. Il Veneto in particolare, con un trend in crescita del prodotto interno lordo, diviene un esempio a livello internazionale. Lo sviluppo economico porta con sé cambiamenti negli stili di vita. Si diffonde l’attività manifatturiera basata sulle piccole imprese, mentre la struttura sociale è caratterizzata da insediamenti rurali dispersi che si sviluppano nella rete dei grandi centri urbani. Con conseguente “erosione” del territorio agricolo. Appartiene invece al periodo immediatamente successivo (1990-2010) lo sviluppo urbano lungo le infrastrutture dei trasporti. “Entrambi i fattori dunque, cioè il clima e l’uomo – ha proseguito Tarolli – hanno contribuito singolarmente in zone diverse a un aumento dell’aggressività delle inondazioni. Emerge come elemento critico la combinazione dei due fattori, oggi più marcata che nel passato, che determina un maggiore numero di località colpite da inondazioni di breve durata. Oggi, le inondazioni si manifestano più frequentemente a scala di quartieri urbani dove si verifica spesso un’incapacità strutturale delle storiche reti idriche di drenare efficacemente eventi meteorici sempre più intensi”. Seempre da Mo0onica Panetto si è appreso che per condurre l’analisi statistica il gruppo si è servito di tre parametri: un “indicatore di urbanizzazione” che descrive il cambio di uso del suolo; un “indicatore di aggressività climatica” che stima il peso che assumono gli eventi di precipitazione più intensa nel determinare la precipitazione totale; e un nuovo “indicatore di aggressività di inondazione”, elaborato dai ricercatori, che indica il peso assunto da eventi della durata di pochi giorni nel contribuire al numero complessivo di località inondate all’interno di ciascun Comune. Tutte queste informazioni sono state esaminate su scala regionale e analizzate in contemporanea, verificando statisticamente gli effetti di clima e urbanizzazione sull’aggressività delle inondazioni. L’intreccio tra i processi di urbanizzazione e i cambiamenti climatici in atto influisce dunque sensibilmente sul rischio di alluvioni. In Europa, se si allarga lo sguardo oltre i confini regionali, sono mediamente 200.000 le persone che ogni anno restano coinvolte in calamità naturali come le inondazioni, un numero che potrebbe arrivare al milione entro il 2080. I costi sono altrettanto pesanti: se oggi infatti il danno economico è di 5,3 miliardi di euro annui, entro il 2080 potrebbe raggiungere i 100 miliardi. Secondo gli autori dello studio i sistemi attuali sembrano essere inadeguati ad affrontare le vulnerabilità del territorio e richiedono nuove soluzioni. Ragione per cui, secondo Tarolli, una gestione efficace e sostenibile del territorio necessita di un approccio integrato, che dovrebbe includere, accanto a una adeguata analisi dei fenomeni climatici,  una approfondita conoscenza anche delle forzanti sociali ed economiche che condizionano lo sviluppo urbano. In tal modo sarebbero più facilmente identificabili le aree vulnerabili dove tali elementi agiscono sinergicamente. “La componente sociale è un aspetto dal quale ormai non si può prescindere – ha argomentato il docente –. L’essere umano, la sua socialità, l’evoluzione dei suoi gusti, dei suoi comportamenti devono essere considerati nell’analisi dei processi che avvengono in natura, perché su questi vanno a incidere”. Tutte le attività dell’uomo producono degli effetti sull’ecosistema: lo sviluppo dell’agricoltura intensiva ha influito sul tasso di erosione del suolo e sulla diffusione di fertilizzanti; le emissioni di gas serra sono correlate a un aumento della temperatura su scala mondiale; le estrazioni minerarie stanno incidendo negativamente sulla disponibilità di materie prime non rinnovabili. Questo solo per fare qualche esempio. “Dal secondo dopoguerra lo stile di vita dell’essere umano è mutato e questo sta producendo cambiamenti strutturali sul pianeta Terra che rimarranno nei prossimi millenni”. Per tali motivi, secondo il docente, davanti a problemi ambientali come le alluvioni non è sufficiente fermarsi all’elaborazione di modelli idraulici, ma è necessario considerare anche l’aspetto sociale e lo sviluppo economico del territorio. Serve in definitiva quantificare l’impatto che le attività dell’uomo producono sull’ambiente per avere strumenti su cui ragionare. Proprio in questa direzione si sta muovendo il gruppo di ricerca Earth Surface Processes & Society, coordinato da Paolo Tarolli: gli effetti derivati dall’eccessivo consumo del suolo o dalle forme di agricoltura non sostenibile, lo sviluppo socio-economico in relazione a fenomeni di dissesto idrogeologico, l’impatto antropico  che deriva dalle estrazioni minerarie sono solo alcuni degli argomenti a cui i ricercatori stanno lavorando (uomo e natura vanno di pari passo).

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