Ci si trova davanti a una persona, si sa perfettamente chi è, ma del suo nome non c’è alcuna traccia nella nostra memoria. Ed è allora che si ricorre agli stratagemmi più arguti per tentare di aggirare l’ostacolo non senza evidente imbarazzo, rivolgendoci al nostro interlocutore con gli appellativi del caso. A spiegarlo è Carlo Semenza, docente del dipartimento di Neuroscienze dell’università di Padova che si occupa di queste tematiche già dalla fine degli anni Ottanta. Ha scritto un testo-intervista Monica Panetto sul Bo Live, il giornale web dell’universita’ di Padova. “I nomi propri – ha sottolineato lo scienziato che approfondirà l’argomento nell’ambito della Brain awareness week – sono sostenuti da un sistema semantico di tipo diverso rispetto ai nomi comuni e sono degli indicatori semplici di entità individuali. Ad esempio, la semantica che sostiene la parola ‘cavallo’ indica una precisa categoria ed è valida per ogni cavallo. Invece, gli attributi che definiscono un individuo convergono nel nome proprio nella maniera più casuale possibile (dato che non tutti quelli che insegnano neuropsicologia portano gli occhiali e sono alti un metro e 70 centimetri). Ciò significa che i nomi propri e i nomi comuni sono elaborati nel cervello in modi diversi e per vie diverse”. Il sistema sotteso al ricordo dei nomi propri probabilmente è evoluto in maniera indipendente o solo parzialmente dipendente nel cervello rispetto a quello dei nomi comuni ed è intrinsecamente più fragile: i nomi propri sono legati al loro significato in maniera più debole di quanto lo siano i nomi comuni e per tale ragione è più difficile ricordarli. Questo richiede anche maggiori risorse al nostro sistema cognitivo, più ossigeno ad esempio.
Provate a stabilirvi per due settimane a 5.000 metri di altitudine, dove l’ossigeno dell’aria inizia a scarseggiare rispetto al fabbisogno umano: certo, per quanto la possibilità sia abbastanza remota, avreste modo di constatare significative difficoltà a ricordare i nomi propri rispetto ai nomi comuni, al punto che riuscireste a recuperare le capacità di denominazione che avevate prima del soggiorno solo dopo 45 giorni dal ritorno al livello del mare. Un fatto, questo, che Semenza con il suo gruppo è riuscito a dimostrare empiricamente alcuni anni fa, avvalendosi di una spedizione alpinistica che, a scopi scientifici, si è stabilita proprio a 5.000 metri di altitudine sull’Himalaya per 15 giorni.
L’interesse, certo, può influire sulla memorizzazione dei nomi propri, ma non è sufficiente a risparmiare in taluni casi figure alquanto imbarazzanti. E, d’altra parte, non esistono strategie che possano venirci in soccorso, dato che gli attributi semantici dei nomi propri sono legati molto casualmente. Con l’età il fenomeno si accentua, fino ad avere un’impennata fisiologica intorno ai 65 anni. I nomi propri si dimenticano più frequentemente, ma ciò dipende dai cambiamenti a cui va incontro la nostra memoria con il passare degli anni. Nulla di preoccupante quando ci si dimentica il nome proprio, ma si conserva l’informazione di tipo semantico ad esso legata. Specie se il nome ritorna a galla dopo una quindicina di minuti. Cosa diversa, invece, se oltre alla forma fonologica si perdono anche i contenuti semantici, gli attributi legati a uno specifico nome di persona. Potrebbero essere questi infatti, spiega Semenza, i primi segnali di patologie come l’Alzheimer. “Secondo molti l’area del cervello interessata alla memorizzazione dei nomi propri è la parte anteriore del lobo temporale di sinistra. In realtà, durante i miei studi ho osservato che individui con lesioni in quell’area, non manifestavano problemi nel ricordo dei nomi. Al contrario, pazienti che dimenticavano i nomi propri, avevano subito danni in quella specifica area, ma anche in altre. Per questa ragione, ritengo che i nomi propri siano sostenuti piuttosto da un network, da una rete di neuroni posti in varie parti del cervello che funzionano insieme”. I primi a interessarsi a queste tematiche non sono stati, come ci si potrebbe aspettare, medici o psicologi, ma i filosofi che si sono accorti che la memorizzazione dei nomi propri aveva caratteristiche diverse rispetto a quella dei nomi comuni. (foto Bo Live/UniPd).