Secondo previsioni prima della metà di marzo l’assemblea della Camera dovrebbe prendere in esame il disegno di legge sul consenso informato e le “disposizioni anticipate di trattamento” (Dat). Si tratta del cosiddetto testamento biologico: la facoltà garantita a ogni individuo capace e maggiorenne di redigere un testo che contenga indicazioni riguardo a terapie e trattamenti sanitari che in futuro dovessero essere proposti dai medici per lui. Le Dat verrebbero prese in considerazione qualora l’interessato non fosse in grado di esprimere, al momento della scelta terapeutica, la propria volontà. Si è davanti al primo provvedimento di legge in Italia a disciplinare l’eventuale rifiuto di cure e trattamenti, compresi la nutrizione e l’idratazione artificiali. Per la prima volta, si sancirebbe (qualora venisse approvato il testo già varato in Commissione) il diritto del paziente ad esprimere scelte che potenzialmente potrebbero, in futuro, accelerarne il fine vita. Di questo scrive un ampio resoconto Martino Periti sul giornale Il Bo dell’ateneo di Padova. La bozza all’esame della Camera impone al medico, esentandolo da ogni responsabilità, di rispettare la volontà comunque espressa dal paziente, di persona o tramite le Dat. È sancito il diritto del malato di rifiutare “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario” indicato dal medico. La volontà del paziente trova un chiaro limite nell’impossibilità di esigere trattamenti contrari alla legge, ma anche alla deontologia medica e alle “buone pratiche clinico-assistenziali”. Anche in caso di rifiuto delle cure, il paziente ha diritto a mantenere il supporto medico di base e la somministrazione delle cure palliative, già disciplinate dalla legge 38 del 2010. Se il paziente decide di esprimere in anticipo le sue scelte tramite le Dat, queste devono avere forma scritta ed essere redatte con atto pubblico o scrittura privata davanti a un notaio, un pubblico ufficiale, un medico del Servizio sanitario nazionale o convenzionato. Con le stesse modalità, sono sempre revocabili o modificabili (in caso di “emergenza o urgenza” basta una dichiarazione orale davanti a due testimoni). Con le Dat è anche possibile indicare un fiduciario che possa rappresentare l’interessato nelle relazioni con medici e strutture sanitarie. I medici sono sempre tenuti a rispettare le scelte espresse nelle Dat, con l’eccezione del caso in cui al momento della decisione esistano “terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione” in grado di “assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”: in questo caso deve esserci accordo tra medico e fiduciario del paziente. Accanto alle Dat viene previsto un altro documento per anticipare le proprie scelte terapeutiche: la pianificazione condivisa delle cure, con cui medico e paziente sottoscrivono un piano terapeutico nella prospettiva dell’evoluzione di una patologia “cronica e invalidante” o con prognosi infausta. Il documento, sempre modificabile, è vincolante per il medico qualora il paziente venga a trovarsi in condizioni di incapacità.
La discussione alla Camera si inserisce nel dibattito suscitato dal caso, diffuso pochi giorni fa, di un malato di sclerosi laterale amiotrofica che ha scelto di accedere alla sedazione palliativa profonda: la somministrazione di farmaci ipnotici fino all’annullamento dello stato di coscienza, praticata allo scopo di eliminare la sofferenza fisica e psichica nel paziente terminale, i cui sintomi siano refrattari ai farmaci. Una pratica (non prevista nella bozza sul biotestamento) proseguita, nel caso citato, fino al momento della morte del paziente. Se in Italia il primo esempio di legislazione sul “fine vita” è ancora all’inizio della discussione, in Germania le scelte normative si sono spinte ben più avanti. Il Parlamento tedesco ha approvato, alla fine del 2015, una modifica del codice penale per regolare il suicidio assistito. Il delicatissimo tema è stato trattato a Padova in una conferenza del professor Michael Quante, docente di filosofia all’università di Münster. Il tema dell’“aiuto a morire” ha suscitato in Germania un complesso dibattito, che ha portato il Parlamento a confrontarsi su ben quattro proposte di legge alternative. Partendo dal principio, condiviso in Germania, della piena liceità giuridica del suicidio, si poneva il problema di regolare per legge i casi in cui, di fronte a una espressa volontà di porre fine alla propria vita da parte di un individuo, fosse legittimo o meno assisterlo nel portare a compimento il suo progetto. Non stiamo ovviamente parlando di eutanasia attiva, che in Germania è vietata, ma di supporto pratico e psicologico: l’atto finale, in questa prospettiva, è sempre eseguito materialmente dalla persona che desidera terminare la sua vita. La soluzione scelta dal legislatore è stata quella di prevedere un disposto molto generico, secondo il quale è penalmente punibile chi offre “professionalmente” un supporto alla volontà suicida, mentre viene esonerato da responsabilità chi agisce nei confronti di una persona cui è legato da vincoli di parentela o amicizia. Così formulata, la norma condanna tutti i tipi di assistenza al suicidio in modo organizzato: da quella a scopo di lucro a quella non profit (come avviene in Svizzera), ma anche a quella medica. L’elemento di discrimine, cioè, non si fonda tanto sullo scopo dell’assistenza, quanto sull’esistenza di un vincolo personale che lega l’aspirante suicida a chi lo aiuta: un elemento che dovrebbe, di per sé, garantire che l’atto dell’aiuto a morire non possa essere ripetuto più volte dalla stessa persona verso differenti soggetti. Come ha spiegato Quante, il dibattito in Germania ha visto un forte coinvolgimento delle associazioni dei medici: nonostante, a livello locale, vi siano state prese di posizione differenziate, l’organo nazionale di rappresentanza dei medici ha espresso contrarietà al consentire alla categoria l’assistenza agli aspiranti suicidi. Una scelta eticamente inaccettabile, secondo Quante: a suo parere, prevedere norme deontologiche che proibiscono la pratica dell’assistenza al suicidio significa comprimere la libertà di coscienza di ogni medico. (Va ribadito, per inciso, che anche la bozza della legge italiana sul testamento biologico prevede che il paziente non possa richiedere trattamenti sanitari contrari “alla deontologia professionale”: secondo il disposto, una pratica consentita dalla legge ma vietata dalle norme deontologiche non sarebbe dunque ottenibile). Secondo il prof. Quante, così come è intoccabile il diritto all’obiezione di coscienza (e quindi nessun medico dovrebbe essere mai obbligato a praticare l’assistenza al suicidio), allo stesso modo dovrebbe essere consentito al professionista di decidere di volta in volta secondo il proprio convincimento, senza alcuna influenza esterna. Per Quante, inoltre, la scelta di vietare per legge ai medici di aiutare una persona a morire comporta un eccessivo carico di responsabilità su parenti e amici, gli unici autorizzati dalla legge ad assistere la persona che decide di morire: il diritto a determinare la propria vita e morte, secondo Quante, verrebbe così indebitamente ristretto, perché senza il supporto dei medici ben difficilmente altre persone prenderanno, da sole, decisioni così complesse dal punto di vista etico ma anche sanitario. Dilemmi di enorme difficoltà, ravvivati dalla scelta di alcuni personaggi pubblici (anche italiani) di porre fine alla propria vita spostandosi in Svizzera, Paese che consente l’assistenza al suicidio anche a persone di diversa cittadinanza. Per Quante in conclusione, annota sempre Martino Periti, l’unica strada per consentire a una società di sviluppare soluzioni condivise è quella di non vedere più l’argomento come un tabù, ma favorire e ampliare quanto possibile il dibattito, secondo principi di razionalità e pluralismo.

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