Nel museo di Botanica si trovano piante; nel museo dell’Educazione libri e materiale didattico del secolo scorso; a Veterinaria ossa e scheletri di animali. E nel museo di Antropologia? Un alone di mistero lo avvolge: scheletri d’uomo? E poi, cos’altro? Di questa realtà scrive sul giornale il Bo dell’ateneo Damiano Martin. Antropologia è, semplicemente, tutto: ossa, mummie, genetica, corredi, manufatti, arte e artigianato. “L’antropologia è una materia multidisciplinare, riguarda qualsiasi cosa abbia a che fare con l’uomo. Più gli orizzonti si allargano, più aumenta la conoscenza di un determinato argomento”. Come ha evidenziato il conservatore del museo Nicola Carrara. A Padova ancora non esiste un corso di laurea dedicato: chi ci arriva lo fa partendo da altri studi, come biologia, storia dell’arte o beni culturali, e poi si ritrova a raccontare l’uomo. In attesa del 2022, il museo di Antropologia organizza visite in collaborazione con altri musei (Geologia e Paleontologia, Zoologia) o su prenotazione. Vale la pena curiosare tra i pezzi, per visitare un’esposizione a misura d’uomo. La struttura è chiusa, rimasta incastrata, tra traslochi e sale inagibili di palazzo Cavalli. L’obiettivo che cambierà le cose è fissato per il 2022, quando l’ateneo di Padova festeggerà gli 800 anni di storia e Antropologia, insieme ad altre collezioni dell’ateneo andrà a costituire il grande museo di Scienze Naturali. Nicola Carrara, laureato a Padova in Biologia e conservatore dal 2000, non è solo: ad aiutarlo c’è Eleonora, volontaria del Servizio civile nazionale, laureata in Storia dell’arte, e Cinzia, assegnista di ricerca e laureata in Restauro e conservazione dei beni culturali. Tutti e tre danno un contributo concreto all’antropologia, nonostante i diversi percorsi di studi. Nicola si definisce “un biologo che fa antropologia”. Eleonora, nella sua esperienza da volontaria, ha sviluppato una consapevolezza ambientale dell’arte, del rapporto tra uomo e il luogo che lo circonda, delle risposte che dà un’opera, slegate dal senso estetico. Il museo di Antropologia si divide in quattro collezioni: osteologica, paletnologica, etnografica ed arte orientale. Le quattro non sono (al momento) divise per sala, ma si intersecano a seconda dell’area geografica. La prima di queste è dedicata all’estremo oriente, alla collezione di arte orientale del museo. Particolare perché è unica, raccolta da una sola persona durante la seconda metà dell’Ottocento: Enrico di Borbone, conte di Bardi, passata poi per il museo di Arte orientale Ca’ Pesaro di Venezia e giunta infine a Padova. Non sarebbe propriamente corretto definire “arte” quello che vi è esposto. Le opere esposte furono oggetti di uso comune nel mondo giapponese del passato (foto); questo la dice lunga sulla loro cultura, sull’approccio alla manodopera. Cura dei dettagli, senso estetico, non per forza a scapito della praticità. Certo, il tipico cappello a tesa larghissima, alla “Sampei”, non è comodo, soprattutto se questo deve essere indossato sopra a un ulteriore cilindro da poggiare sul capo. Ma in campo bellico, i samurai hanno solo da insegnare al cavaliere medievale: “Le armature in ferro arrivavano a pesare 30/40 kg – ha spiegato Carrara – i cavalieri venivano calati dall’alto, sopra il loro cavallo. Una volta disarcionati o a terra, erano spacciati. I samurai invece avevano questi indumenti leggeri, di una dozzina di chili: molto più agili. Certo, influisce il fatto che per loro era disonorevole sparare a distanza, concepivano solo il faccia a faccia”. Non solo Giappone, non solo armature e armi, ma anche ceramiche, utensili da casa, vestiti e modellini, provenienti da Thailandia e Cina, in attesa di studio, catalogazione e di essere esposti. L’altra collezione consistente del museo è quella oceanica, acquisita dalla Collezione dell’Arsenale della Marina da Guerra austro-ungarica di Pola nel 1935-36, accompagnata da altri oggetti proveniente dall’Asia meridionale, in piccola parte dall’America e dall’Africa. È il Continente nero a fornire il “pezzo forte” di questa sala: una mummia, risalente forse al periodo tolemaico. Impossibile non pensarla come un cadavere, perché questo è: le orbite vuote, quel che resta della pelle, una fina corteccia aderente alle ossa esili. A livello di macabro, la mummia se la gioca con i teschi oceanici: “Pensiamo alle tribù della Nuova Guinea come arretrati culturalmente. Due tribù, quando si affrontano, si fermano al primo morto: non fanno stragi. Il primo che uccide un nemico gli taglia la testa e ne mangia il cervello: questo ha una forte carica simbolica, si perpetra l’uomo ucciso all’interno del suo assassino. Dopodiché quest’ultimo lascia la sua tribù d’origine e passa a quella della vittima, in una sorte di compensazione per la perdita subita. Questo è il loro grado di arretratezza”, ha commentato ironico Carrara. Storie di popoli e tribù; arte; archeologia e beni culturali. È davvero difficile riuscire a trovare dei confini netti che comprendano l’antropologia, ed è questo il suo fascino.

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