La ricerca e la pratica psicologica in ambito evolutivo e clinico sono giunti ad una visione del bambino, del suo sviluppo e dei suoi disturbi non più in termini di individuo ma di relazione e, in particolare, della qualità delle relazioni che gli adulti sanno o meno costruire per e con il bambino favorendo la sua crescita e il suo benessere. Questo da oltre trenta anni. Da questo nasce il concetto di funzione genitoriale, oggi molto utilizzato, a volte scientificamente, a volte strumentalmente: la funzione genitoriale riguarda il fatto che a un certo punto si diventa genitori di qualcuno, si attende una nascita, si partorisce? Essere genitori (biologici) e avere capacità genitoriali sono la stessa cosa oppure si tratta di aspetti diversi? E chi non è genitore non può avere o svolgere una funzione genitoriale? Nulla di tutto questo e i ricercatori e i clinici che si occupano di bambini e famiglie, quelli veri, quelli che frequentano le scuole, i servizi, i contesti di vita, lo sanno. La genitorialità è una funzione di cura, cioè la capacità di prendersi cura di un’altra persona al di fuori di se stessi, sia sul piano fisico sia sul piano affettivo: questo implica l’attenzione ai bisogni dell’altro, la comprensione delle sue necessità e richieste e le competenze per rispondere adeguatamente. Rispondere all’altro, a sua volta, richiede la possibilità di mettersi dal suo punto di vista conoscendo e rispettando la sua età, le sue capacità, le sue caratteristiche e il suo momento evolutivo specifico. Tale percorso non richiede necessariamente la presenza di un genitore e di un bambino, ma la coesistenza di due individui caratterizzati da un’asimmetria (anche temporanea) di capacità, sviluppo, possibilità: una asimmetria tale da generare la funzione genitoriale dell’uno a vantaggio della manifestazione dei bisogni dell’altro.
Questo significa anche che non occorre essere genitori per esercitare la propria funzione genitoriale: è sufficiente porsi in una condizione di disponibilità alla cura, laddove l’altro può essere un bambino anche non figlio nostro (per esempio, un bambino adottato o in affido, il figlio del nostro compagno o della nostra compagna), un adolescente che fatica ad inserirsi in un Paese e in una cultura che non gli appartiene, un nucleo familiare che potremmo definire “atipico” (per esempio, un genitore solo, una coppia arrivata alla genitorialità in tarda età, una coppia omogenitoriale), ma che invece ha solo bisogno di attenzioni e accompagnamento. In tutti questi casi, e in molti altri, è possibile attivare la propria funzione genitoriale rivolgendo attenzione alle richieste di un’altra persona e predisponendosi a organizzare risposte efficaci, ossia dotate di componenti affettive, cognitive e comportamentali utili all’obiettivo della cura e della protezione. Questo non ha a che fare con il legame biologico tra le persone, ma con la relazione affettiva che costruisce lo sviluppo; in tal senso, la genitorialità è una funzione che può avere basi biologiche ma che prescinde da esse: al centro viene posta la relazione tra gli individui come esperienza che organizza il mondo esterno e che struttura il mondo interno. Le competenze genitoriali, inoltre, sono qualcosa che non ha a che vedere con il livello culturale, ideologico, professionale o economico di chi le esercita, ma si esprimono con comportamenti molto semplici della vita quotidiana come sorridere, nutrire, coccolare. Si tratta di quei numerosi gesti infinitesimali di cui sono piene le giornate di chi si occupa, come genitore (biologico, adottivo, vicario) o semplicemente come adulto (operatore, zio, nonno, insegnante), di bambini. Sono comportamenti nel qui e ora della relazione, ma che costruiscono la relazione stessa, determinandone la qualità: come i mattoni con i quali si costruisce una casa. E una casa, ci dice la scienza e la clinica (ma anche il senso comune), può essere costruita con mille colori, avere molte forme, molte stanze diverse in cui i bambini possono crescere, imparare, inciampare e poi rialzarsi e ripartire. E si parlerà molto di famiglia al XIII Congresso8 Mondiale delle Famiglie a Verona dal 29 al 31 marzo, con particolare enfasi ad un concetto univoco e unitario di famiglia, singolare, monolitico. Probabilmente si tratta di un punto di vista verosimile che non deve essere intaccato né messo in crisi. Come ha scritto Alessandra Simonelli sul Bo Live, il giornale web dell’ateneo di Padova, e’ un concetto che contrasta ormai con innumerevoli dati di ricerca e con la vita concreta di bambini e adulti che nascono e crescono nei nostri paesi, nelle nostre città e nazioni, nel nostro mondo. La ricerca psicologica ormai afferma con forza che il benessere dei bambini e il loro sviluppo è strettamente connesso alla protezione che gli adulti sanno fornirgli, nei diversi contesti di vita in cui è inserito. Ancora una volta il legame biologico non è la condizione necessaria, ma la condizione sufficiente consiste nella presenza di adulti disponibili, indipendentemente dal tipo di legame, dalla situazione, dal genere, dall’età, dal colore, dalla cultura di appartenenza, dalla religione, dal credo politico. Perché non avvantaggiarsi dei dati della ricerca scientifica in questo campo per parlare di famiglie, plurale, variegato, molteplice, per comprendere sempre di più e sempre meglio non solo i meccanismi che creano percorsi di sviluppo sani per i nostri bambini, ma anche politiche rispettose della diversità, della differenziazione e della varietà dei mondi e dei contesti in cui i bambini del nostro millennio crescono? Perché non fare riferimento a centri di eccellenza nei vari atenei italiani e internazionali, a ricercatori che da anni, per mestiere, studiano queste nuovefamiglie e questi nuovi bambini, riscontrando sempre più spesso come non ci siano connessioni dirette e/o indirette tra alcuni fattori e la loro salute nel breve e nel lungo termine? Lontano dalle polemiche, il dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione (DPSS) dell’università di Padova da anni rappresenta un punto di riferimento per la ricerca e la clinica in tema di crescita e benessere di bambini, adolescenti e famiglie che vengono studiati dal punto di vista cerebrale, comportamentale, cognitivo, affettivo relazionale e sociale secondo prospettive complesse, rispettose dei cambiamenti profondi a cui persone e sistemi familiari stanno andando incontro nel tempo. I dati riportano chiaramente che non sono i cambiamenti e/o le atipicità delle famiglie (rispetto a quella tradizionale) a segnare percorsi di difficoltà o psicopatologici per i bambini e il loro sviluppo. I dati riportano che il disagio e la patologia emergono quando i bambini sono poco amati, poco protetti, poco rispettati; quando crescono in condizioni di carenza e/o inadeguatezza delle cure e della protezione che sono le condizioni che di più e in modo maggiormente duraturo possono generare carenze e/o inadeguatezza nello sviluppo, a tal punto da generare danni anche permanenti sulla salute e sul benessere della persona nel corso di tutta la vita. Molti docenti e ricercatori del DPSS lavorano da anni su questi temi proprio per cercare di rispondere alla domanda fondamentale che guida tante ricerche e tanta pratica con bambini e famiglie: cosa serve ai bambini per crescere, per divenire individui non sofferenti e adattati al mondo e alle sue richieste? La risposta non è semplice, né semplicistica. La risposta non può essere “una famiglia tradizionale”: la risposta va cercata nei molteplici e variegati fattori che compongono oggi tutti i modelli di famiglie, genitorialità, cura che possono consentire ad un bambino di diventare adulto. Quanto riportato in questo articolo rappresenta la posizione ufficiale del dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione (DPSS) dell’università di Padova. (foto Bo Live.UniPd).