La mosta”Idoli”, allestita dalla fondazione Ligabue, a palazzo Loredan di Venezia, chiude il 20 gennaio e, secondo un primo calcolo, i visitatori saranno 15 mila (tra studiosi, turisti, uomini di cultura, italiani e stranieri). La rassegna è stata inaugurata il 15 settembre scoorso.  E in questi giorni di pre-chiusura, il presidente della Fondazione Inti Ligabue, figlio del noto paleontologo Giancarlo, si è incontrato co un gruppo di visitatori e specialisti, ai quali ha spiegato  il confronto tra le varianti locali di tali manufatti e i numerosi tratti che popoli di regioni lontane avevano in comune. La mostra “Idoli” (dal greco eídolon, immagine) – curata da Annie Caubet, conservatrice onoraria del Musée du Louvre – propone un viaggio affascinante nel tempo e nello spazio: il primo tentativo di confronto dall’Oriente all’Occidente, di opere raffiguranti il corpo umano del 4000-2000 a.C. ; sono testimonianze di queste prime civiltà e dal potere dell’immagine.  Attraverso cento straordinari reperti – alcuni eccezionali per l’importanza storico-scientifica e la rarità – e grazie ad un apparato didattico coinvolgente, è possibile percorrere un ampio spazio geografico, che si estende dalla Penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente, in un’epoca di grande transizione, in cui i villaggi del Neolitico si evolvono a poco a poco nelle società urbane dell’Età del Bronzo. La cosiddetta “Rivoluzione neolitica” è epocale: segna il passaggio da clan e tribù a società più complesse, vede l’avvento di nuove tecnologie e della lavorazione dei metalli, l’affermarsi delle prime forme di scrittura in diversi centri, l’avvio di reti commerciali e dei relativi traffici anche tra popoli molto distanti, che in tal modo intensificano i rapporti e gli scambi di merci e materiali, di idee e forme espressive. In questo contesto si collocano le misteriose rappresentazioni della figura umana qui esposte, di cui quattordici appartenenti alla Collezione Ligabue, le altre provenienti da collezioni private internazionali e da importanti musei europei: l’Archäologische Sammlung der Universität Zürich, l’Ashmolean Museum of Art and Archaeology – University of Oxford, il Musées Royaux d’Art et d’Historie di Bruxelles, la Congregazione Armena Mechitarista dell’isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia, il Badisches Landesmuseum di Karlsruhe, il MAN-Museo Arqueológico nacional di Madrid, il Polo Museale della Sardegna – Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, i Musei Civici di Padova – Museo Archeologico, il Department of Antiquities Cyprus a Nicosia e il Musée d’Archéologie Nationale et Domaine National de Saint-Germain-en-Laye. Dapprima sono quasi esclusivamente figure femminili, poi con l’affermarsi di società sempre più strutturate, saranno soprattutto gli uomini a divenire protagonisti: dei, sovrani, eroi (nella foto un reperto in mostra). E’ sorprendente vedere come, in parti del mondo tra loro lontanissime, si affermino tradizioni e forme di rappresentazioni simili o si ritrovino materiali necessariamente giunti da paesi distanti, eppure già in relazione tra loro: l’ossidiana della Sardegna e dell’Anatolia, i lapislazzuli importati dall’Afghanistan, l’avorio ottenuto dalle zanne degli ippopotami dell’Egitto o delle Coste del Levante. La mostra prende in esame gli idoli da un punto di vista estetico, a partire tuttavia da una solida base storica e archeologica, che si amplia ulteriormente nel catalogo dell’esposizione (Skira) grazie al contributo di esperti di levatura internazionale. Viene così proposto un confronto tra caratteri fissi e condivisi e aspetti variabili, visti dalla duplice angolazione dell’antropologia e dell’estetica. Tra i fattori comuni va annoverata la qualità artistica: “gli individui che realizzarono quelle sculture – ha scritto  la Caubet – erano artisti dotati di grande talento, che muovendosi tra il rispetto dei modelli tradizionali e la creazione innovativa, seppero comunque lasciare un segno”. Figure simili all’apparenza, rispondenti a codici iconografici analoghi, sono in realtà ciascuna un unicum nelle proporzioni, nei particolari, nel fascino, grazie al tocco dell’artista. L’esposizione di Venezia propone – provenienti dalle Isole Cicladi, dall’Anatolia Occidentale, dalla Sardegna, ma anche dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Mesopotamia o dalla Siria – le famose “Dee Madri” (raffigurazioni femminili particolarmente prospere nei seni e nei fianchi, simbolo forse del potere della Terra, della Maternità e della Fertilità) e gli idoli astratti e geometrici che tanto affascinarono gli artisti del Novecento; oppure i cosiddetti “idoli oculari” o idoli placca, nati dalla fascinazione esercitata dall’occhio come espressione della presenza spirituale. Non più solo esseri dall’identità ambigua, in particolare dal punto di vista del sesso (figure femminili androgine, presenza contemporanea di organi sessuali maschili e femminili, ecc.) né solamente espressione di principi divini, ma anche uomini mortali, reali – spesso colti in atteggiamento orante – e nuove divinità create a immagine dell’uomo. Quello che invece non cambia è il bisogno dell’individuo e della società di esprimere, con manufatti o con opere d’arte, le proprie paure, le proprie speranze, la propria fede. Tutte le statuette in mostra, che riportano talvolta i segni delle ripetute manipolazioni o di riparazioni coeve – a dimostrazione di un loro utilizzo costante e di un ruolo chiave negli eventi sociali e religiosi ricorrenti – sono custodi di storie e miti di straordinaria suggestione; testimoni di usi e di bisogni simili e, in seguito, di quel “grande arazzo di culture interconnesse” che si venne a creare tra la fine del IV e per tutto il III millennio a.C. Tra i reperti esposti ci sono le figure steatopigie dell’Arabia, o dalle statuette cicladiche dalla sessualità ibrida o ancora dalle più enigmatiche sculture della preistoria cipriota, quelle statuine stanti del tipo plank-shaped (con i tratti del volto resi da una molteplicità di segni geometrici incisi, l’abbigliamento elaborato e spesso del tipo “a due teste”), di cui sono in mostra importanti esemplari del Museo Archeologico di Nicosia; o ancora dalla visione naturalistica ma idealizzata che si sviluppa in Mesopotamia nell’Età del Bronzo. I geni raffigurati in questo periodo dagli artisti della Civiltà dell’Oxus, sviluppata in Asia centrale (complesso Battriano-Margiano), narrano di battaglie cosmiche, di esseri dalla doppia identità animale e umana, ricompongono i fili del racconto mitologico ove il “Drago dell’Oxus” – detto anche “Lo Sfregiato” per il profondo squarcio che gli deturpa il volto – con il corpo coperto di squame di serpente, era la controparte selvaggia della “Dama dell’Oxus”: forse spirito astrale, forse principessa Battriana.

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