Nel 2050 potrebbero essere 10 milioni all’anno i pazienti che perdono la vita a causa di infezioni farmacoresistenti nel mondo – una mortalità superiore a quella per tumori – con un costo economico di 100 trilioni di dollari. Oggi la stima si attesta sui 50.000 decessi annui in Europa e negli Stati Uniti e 700.000 a livello globale per infezioni batteriche, malaria, HIV/AIDS o tubercolosi dovute alla resistenza ai farmaci, la situazione è destinata a peggiorare, se non si interviene. In realtà, tecnologie potenzialmente in grado di contrastare questa situazione – dai test di sensibilità antimicrobica al sequenziamento genomico – già esistono, ma il loro impiego su larga scala pone ancora una serie di questioni da risolvere. La resistenza agli antibiotici, tra tutti gli antimicrobici, è il fenomeno che preoccupa maggiormente. Su questi farmaci si basa la medicina moderna e, se perdono di efficacia, procedure mediche come la chirurgia addominale, il taglio cesareo, i trapianti d’organo, la chemioterapia potrebbero diventare troppo pericolose per essere eseguite, con un impatto soprattutto sui paesi a basso e medio reddito. Senza contare le numerose infezioni che risulterebbero sempre più difficili (o impossibili) da trattare. In Italia la resistenza agli antibiotici è tra le più elevate d’Europa. I dati forniti dal Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità indicano un notevole aumento delle infezioni da Klebsiella pneumoniae resistenti ai carbapenemi. Nel 2009 le infezioni provocate da ceppi resistenti ai carbapenemi erano l’1,3%, nel 2011 il 27%, fino ad arrivare al 33% nel 2015. Anche Escherichia coli ha registrato elevate percentuali di resistenza agli antibiotici, dell’ordine del 30% verso le cefalosporine di terza generazione e 43% verso i fluorochinoloni. Situazione critica anche per batteri come Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter spp, causa di infezioni correlate all’assistenza in pazienti ricoverati in terapia intensiva e in altri reparti ad alta intensità di cure. Da anni, infine, la resistenza dello Staphylococcus aureus alla meticillina è del 33-34%. Nel nostro Paese non viene condotto un adeguato e tempestivo screening microbiologico come invece si dovrebbe fare prima di somministrare un antibiotico. Sul Bo Live, il giornale web dell’ateneo di Padova, Monica Panetto ha scritto un testo dopo aver conversato con Giorgio Palu’, presidente della societa’ italiana di virologia e docente di microbiologia e virologia all’universita’ di Padova.
“In Italia si fa un uso smodato di antibiotici – ha spiegato Palù – non si sono seguite linee guida e anche la propaganda farmaceutica spinge sulle scelte del medico di medicina generale. Nel nostro Paese, inoltre, non viene condotto un adeguato e tempestivo screening microbiologico come invece si dovrebbe fare prima di somministrare un antibiotico. Sarebbe necessario infatti sapere di che germe si tratta o su base microbiologica o epidemiologica, specie se si considera che spesso si fa ricorso agli antibiotici anche in caso di sindromi influenzali o infezioni virali, quando non ce n’è alcun bisogno. Infine, va detto che l’industria farmaceutica ha smesso di investire per lo sviluppo di nuovi antibiotici”. Per Palù sono divenuti farmaci poco “interessanti” dal punto di vista commerciale, dato che vengono somministrati per brevi periodi di tempo, in maniera estemporanea. Cosa diversa invece nel caso di medicinali come gli anticoagulanti, o i farmaci per il controllo della pressione arteriosa, del colesterolo o della glicemia, che sono assunti dal paziente quotidianamente nel corso di tutta la vita. Gli antibiotici, inoltre, sono in commercio da molto tempo e hanno perso l’innovatività legata al brevetto, specie se si considera che esistono i farmaci generici che producono una riduzione dei costi per il paziente e dunque una diminuzione del profitto per le aziende. Sono infezioni che il più delle volte si contraggono in ambiente ospedaliero – ha argomentato Palù –, soprattutto nei reparti in cui vengono eseguite procedure invasive nei confronti del paziente, nelle emergency room, nelle sale chirurgiche, in rianimazione e sono dovute al diffondersi di batteri nelle secrezioni, nei rivestimenti degli apparecchi di tipo diagnostico o degli strumenti a supporto della sopravvivenza del paziente, come tubi di drenaggio o sistemi per l’alimentazione artificiale”. Secondo il docente il problema della resistenza agli antibiotici ha avuto origine proprio in ambiente nosocomiale, per poi prendere piede anche nella comunità extraospedaliera. Uno studio pubblicato 2 anni fa su Plos Medicine stima, ad esempio, che in Europa le infezioni contratte in ambiente ospedaliero, come la polmonite, le infezioni del tratto urinario, del sito chirurgico, da Clostridium difficile, la sepsi neonatale, le infezioni del sangue, abbiano un impatto superiore rispetto a patologie come l’influenza e la tubercolosi e che ogni anno i casi ammontino a 2,5 milioni. Va ricordato, ha annotato Panetto, Alexander Fleming, colui che ha scoperto il primo antibiotico, la penicillina, nel 1928. Come affrontare il problema? “In caso di infezioni nosocomiali – ha continuato Palù – qui a Padova si esegue non solo un continuo monitoraggio microbiologico dei pazienti a rischio di infezione ma si stila anche una mappa dell’epidemiologia delle resistenze per singolo reparto di ricovero e cura. Se il paziente è portatore di un germe multiresistente viene isolato dagli altri. Si fa dunque prevenzione, basandosi sul dato biologico. Nel caso invece di infezioni da batteri pluriresistenti, cioè non ancora resistenti a tutte le classi antibiotiche, somministriamo il farmaco più efficace sulla base dell’antibiogramma e della valutazione delle concentrazioni minime efficaci (per valutare con precisione la sensibilità di un microrganismo a un determinato antibiotico Ndr). Si tratta di pazienti che andrebbero trattati in isolamento e, una volta dimessi dall’ospedale, andrebbero informate le famiglie e i medici di base”. È oggi possibile accorciare di molto i tempi diagnostici intervenendo in maniera più efficace in pazienti con infezioni gravi grazie a un approccio genomico. In strutture come la Microbiologia e virologia di Padova si riesce in poche ore a individuare a quali farmaci può essere resistente un batterio, sequenziandone l’intero genoma con sequenziatori di ultima generazione e analizzando, con evoluti supporti bioinformatici, la sequenza dei singoli geni coinvolti nell’antibiotico-resistenza. Le tecnologie per contrastare la resistenza agli antibiotici esistono, come posto in evidenza anche in un recente articolo pubblicato su Nature Reviews Microbiology, ma il loro impiego su larga scala pone ancora questioni da risolvere. Tra queste innanzitutto i costi, la mancanza di una regolamentazione uniforme a livello regionale e nazionale e la possibilità di condividere le informazioni sui ceppi resistenti e gli antibiotici più efficaci in tempo reale.(foto Bo Live UnPd).

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