La Marca trevigiana, tra il 1917 e il 1918, fu divisa da uno dei fronti più cruenti e combattuti della Grande Guerra: la destra Piave fu teatro di operazioni del regio esercito italiano, la sinistra Piave (il Friuli e il Veneto occidentale) fu territorio di conquista dell’esercito austro-ungarico. Sull’occupazione di Motta di Livenza (Treviso) c’è un eccezionale giornale di guerra scritto da un frate del convento della Basilica della Madonna, padre Ludovico Ciganotto, nato a Motta nel 1869. Il resoconto del francescano, le annotazioni prese di giorno in giorno dal 2 novembre 1917 al 4 novembre 1918 di quanto accadeva in quel piccolo paese del Veneto al momento dell’invasione, sono il diario de “il nostro martirio di un anno”. Il volume, pubblicato nel 1922, “L’invasione austro-ungarica a Motta di Livenza e nei dintorni” (ristampato più volte anche recentemente a cura del Comune) conserva un indubbio valore storico. Nelle sue note padre Ciganotto non manca di dare un duro giudizio sulla guerra, ponendo l’accento sulla condizione degli inermi paesani che ne subirono gli effetti, soffermandosi sui fatti sacrileghi accaduti nel convento di Motta, scrivendo quelle pagine tristi di notte, “al rombo del cannone che tuonava rabbioso a pochi chilometri da noi”. L’esercito italiano si ritirò precipitosamente il 2 novembre 1917 dalle zone della sponda sinistra del fiume Piave, abbandonando nella desolazione molti paesi del trevigiano. Erano i giorni successivi alla disfatta di Caporetto. Lo Stato Maggiore italiano aveva dato tardivo ascolto ai molteplici elementi che suggerivano l’imminenza di una offensiva degli imperi centrali, condotta dal generale tedesco Otto von Below. A Caporetto (Slovenia) furono coinvolte anche le giovani leve, i Ragazzi del ’99. (foto arch. Gente Veneta).  Quelli che sopravvissero alla ritirata rinsaldarono poi le file del Piave, del Grappa e del Montello, permettendo la riscossa un anno esatto dopo, cento anni fa, con la battaglia di Vittorio Veneto. Altri, contratta l’influenza detta “spagnola”, spesero per la Patria la loro giovinezza.  La rotta di Caporetto costò agli italiani 11.000 morti, 19.000 feriti, 300.000 prigionieri, 270.000 profughi. La ritirata dei soldati mise in fuga coloro che potevano mettersi in salvo oltre il fiume, e cioè la borghesia ma molte famiglie rimasero nelle campagne perché non sapevano dove andare e poi c’erano gli animali che non potevano essere abbandonati. Sotto il crepitìo delle mitragliatrici austriache ognuno cercò di mettere in salvo quanto poteva: il Municipio nascose l’antico archivio, le banche vuotarono le casse, i commercianti se ne andarono sgombrando le loro botteghe, prima di far saltare i ponti sui due fiumi venne fatto evacuare l’ospedale civile. Scrive padre Ciganotto, “Ci addormentammo italiani e ci svegliammo… austriaci. Convento invaso, porte sfondate, mobili fracassati… Un nemico affamato, violento, spirante odio è padrone della nostra casa.” Il saccheggio si estese anche al paese e padre Ludovico dà un ritratto realistico della rapacità e dell’ingordigia dei soldati. Era “l’invasione dei barbari”. Si cercò di occultare il metallo e quanto poteva diventare prezioso. Tutto infatti rischiava di essere depredato. Vennero nascoste le corone d’oro della Madonna e del Bambino, riposte in un vaso di tonno e cautamente sepolte sotto terra per sottrarle agli invasori. I candelieri della chiesa furono seppelliti nel campo retrostante il convento e sopra fu seminato il grano. Le campane invece, che non si potevano nascondere, furono buttate giù a colpi di martello e fiamma ossidrica e tutto fu caricato su carri e condotto via, anche le corde. La refurtiva, il “bottino di guerra”, emigrò in Austria o al fronte. I francescani, alla porta dei quali molti bussavano, assistevano tante famiglie, private improvvisamente di tutto che lavoravano solo per essere depredate: “Negli orti nulla si salva dalla rapacità di tanti soldati. Tutto si ruba, si sciupa, si strappa …siamo in una condizione di schiavitù … una triste prospettiva ci si para davanti, triste molto…”. La fame ormai premeva tutti mentre aumentava il numero dei morti tra la popolazione a causa di malattie, privazioni, miseria. “Ciò che una volta appena mangiavano i porci ora mangiano gli uomini… I giovani trascinano la persona come i vecchi, i bambini hanno fame e i padri e le madri si tolgono di bocca la fettina di pane che è la loro razione. La Chiesa era diventata un ospedale militare austriaco e per molti mesi i frati della Basilica si dedicarono alla cura dei feriti. Sul Piave era partita l’offensiva austriaca che decimò gli eserciti tanto che il numero dei morti e dei feriti fu superiore ai superstiti. Padre Ludovico scriveva: “Solo in due giorni i feriti arrivati in questo ospedale sono stati cinquemila. La città, già tutta caserma, si va trasformando in un ospedale…”. Nell’agosto del 1918 si parlò di una prossima avanzata dei nostri, girava la voce “Austria capùt”. La ritirata cominciò effettivamente dopo giugno e continuò progressiva sino ad ottobre ma ben dissimulata, tanto che nessuno riuscì a credervi. Poi, il 30 ottobre, l’ospedale fu smobilitato e il giorno dopo arrivò l’avanguardia ciclistica del Reggimento di Cavalleria “Aquila”, preceduta da scoppi di artiglieria, che riempì di gioia tutti. Finita l’azione delle armi, si poté uscire sulle strade e andare a curiosare. Le campagne erano tempestate di esplosioni, pure nessuna delle case era stata colpita in pieno, “cosa – conclude padre Ludovico – che il nostro popolo meritamente attribuisce ad una speciale protezione della Madonna della quale è tanto devoto.”  Il 4 novembre in Basilica, colla presenza del Vescovo, si cantò il Te Deum per celebrare la fine della guerra, ringraziando la Madonna del grandioso avvenimento con l’incredulità con cui si guarda al miracolo. Padre Ciganotto insegnò a Gerusalemme, Zara, Padova e Gemona del Friuli. Fu dialettico incomparabile, filosofo e teologo sottile. Seguace del francescano medioevale Duns Scoto, pubblicò diversi opuscoli, tra i quali uno dal titolo “Il parrocchiano istruito”, oltre alle memorie sull’invasione. Del libro esisteva copia presso il convento di Gemona, dove padre Ludovico morì nel 1934. (Odetta Dalla Mora)

 

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