Alessandro Portelli, il noto anglista e americanista ospite dell’Università di Padova per il ciclo BoCulture, ha parlato dell’errore capitale che ha portato il mondo a stupirsi della svolta post-Obama: una radicale, storica distorsione della prospettiva, che per anni ha portato analisti, media, studiosi a presentare gli Stati Uniti come una realtà che si esauriva nella polarizzazione California – Washington – New York – New England (più, al massimo, Chicago). Relegando tutto il resto, i nove decimi della Federazione, a flyover country: il Paese che si sorvola e basta, al quale tutt’al più si rivolge dalla cabina dell’aereo uno sguardo distratto, ma di cui si ignora ogni storia, ogni dinamica e inquietudine. E invece, ha chiarito Portelli, è ridicolo pensare di comprendere l’America senza partire da luoghi sconosciuti ai più ma cruciali come Louisville, Kentucky, dove si producono le migliori mazze da baseball e i quaderni in uso nelle scuole di mezza Federazione. Se Trump è specchio ed espressione dell’America flyover, in cui covano i fermenti della società reale e non quelli delle élite cosmopolite, in cosa si differenzia il Paese che Trump ha, con successo, preteso di rappresentare? Anzitutto, ha spiegato Portelli a Martino Periti che ha pubblicato un testo sul giornale Il Bo dell’Ateneo di Padova, nella nuova insofferenza al moderatismo che ha caratterizzato a lungo la politica americana. La convergenza al centro è stata una strategia costante dei due schieramenti politici: se il conflitto in Vietnam è stato avviato dai democratici e concluso dai repubblicani, è proprio per la tradizionale necessità dei partiti di attuare politiche in apparente contraddizione con la propria immagine, in modo da non apparire mai estremisti, e permettersi interventi che l’altra parte non avrebbe mai osato. La presidenza Obama si è mossa in questo solco: una continua ricerca di mediazione, che ha invischiato il potenziale riformatore in un intrico di compromessi, alla ricerca di consensi più larghi e cercando di evitare strappi troppo radicali con gli avversari. Ma il moderatismo di Obama è stato, stavolta, mal ripagato. Dall’altra parte, gli ambienti più conservatori della destra hanno infranto un tabù, e manipolando le notizie sul presunto luogo di nascita di Obama hanno tentato di delegittimarne il ruolo, sostenendo che era ineleggibile. Una spinta estremista uguale e contraria all’attuale campagna, popolare e mediatica insieme, di quanti chiedono l’impeachment (incriminazione) per Trump: di nuovo, una parte degli avversari politici non riconosce più la legittimità del presidente, anziché limitarsi ad attaccarne la linea. Di questo nuovo antimoderatismo, Trump è piena espressione: è un presidente cui non interessa compiacere la più vasta platea possibile. In nome di una pretesa “autenticità” americana, elimina ogni politica per l’inclusione, alza barriere. Ed è sintomatico, ha osservato Portelli, che il suo consenso non scenda. Se Obama non ha saputo mobilitare il suo elettorato, Trump appare invece in grado di elettrizzarlo con la bandiera dell’“America first”: un accento sugli interessi americani che non è all’insegna dell’isolazionismo, semmai di una nuova egemonia economica e militare mondiale che pone le esigenze degli Usa al primo posto. Quali sono, quindi, i valori nascosti (o meglio, ignorati) che l’elettorato di Trump esprime? Secondo Portelli, occorre comprendere la particolare modalità con cui si esprime negli Stati Uniti il conflitto sociale. Se il Paese ha sempre compresso la narrazione dei contrasti tra classi dietro la retorica dell’unità intorno alla bandiera, è invece necessario ripercorrere la storia del conflitto reale, che spesso sorge proprio nell’America profonda: dagli scioperi dei lavoratori delle ferrovie nel 1877 in West Virginia all’attuale ondata di scioperi degli insegnanti, iniziata ancora in West Virginia e diffusasi largamente nel flyover. Portelli – che è anche un attento studioso di cultura popolare – ha trovato la spiegazione del “malessere invisibile” in un genere artistico insospettabile: il country, in apparenza la consacrazione in musica di un conservatorismo acritico e militante. Proprio analizzando alcuni testi di successi country, invece, si scopre un disagio profondo, una disillusione sul “sogno” che coincide con quella molto meno sorprendente di Born in the Usa: la differenza è che l’emarginazione e la povertà, nel country, generano come reazione un rinnovato orgoglio nazionalista. Il patriottismo, in buona sostanza, prende il posto dei diritti, la fierezza di avvolgersi intorno alla bandiera è il grande palliativo di chi si sente condannato per generazioni alla marginalità. E l’imbracciare un’arma, il tenere una pistola nella credenza, assume quindi un’importanza capitale: è l’unico diritto garantito a chi non ha altri riconoscimenti per sentirsi un vero cittadino americano (non a caso Trump ha appena ribadito che finché resterà presidente proteggerà il Secondo Emendamento). Una rivolta silenziosa e “nazionalista”, dunque, patriottica e disillusa, che si è identificata nell’arcigno Trump molto più che nel distante Sanders, interprete dello stesso malessere ma, allo stesso tempo, esponente di quel New England intellettuale ed elitario, troppo slegato dall’America flyover per forgiare un candidato davvero nazionale.
Gli americani hanno scelto un nuovo educatore: secondo la sintesi di Michelle Obama, gli States, stufi della guida di un padre severo, che imponeva una dieta di carote e mandava tutti a letto presto, hanno voluto un padre-ragazzaccio, un po’ complice, che dispensa caramelle a piene mani e lascia i suoi bimbi davanti alla tv fino a notte fonda. Di capriccio in capriccio, dove si condurranno a vicenda padre e figli?
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