Gli italo-levantini di Smirne, discendenti di antiche famiglie di mercanti, banchieri, diplomatici e commercianti insediatisi nella città affacciata sull’Egeo, sono originari di Genova, Venezia, Amalfi e Pisa; sono arrivati al tempo delle crociate e delle repubbliche marinare, e hanno vissuto al fianco dei greci, armeni, francesi, maltesi, olandesi e britannici. Oggi Smirne – patria di Omero e rifondata da Alessandro Magno ed è la città più aperta della Turchia – conta all’incirca 300 levantini Doc. sui circa 1.100 italiani registrati. I loro cognomi sono: Sbisà, de Portu, Aliotti, Aliberti o Baltazzi e, malgrado il crollo dell’Impero ottomano e la nascita della Turchia moderna, hanno scelto di vivere in questo luogo cosmopoilita. Va annotato che purtroppo molti di loro non sono più in grado di parlare italiano. ”Oggi la comunità levantina va riducendosi sempre di più, per via dei matrimoni misti”, ha detto a Cristina Missori dell’Ansa il console generale d’Italia, Luigi Iannuzzi. Un tempo ”i levantini si sposavano unicamente fra di loro”, dal momento che non erano consentiti matrimoni con i cittadini dell’Impero. Alessandro Baltazzi, 78 anni, è ritenuto da molti la memoria storica della comunità italo-levantina di Smirne ed è discendente da una potente famiglia di mercanti e banchieri giunta da Venezia nel 1746; egli ha raccontato come nel 1847 i suoi antenati – insieme ai levantini francesi – misero su la prima banca dell’Impero, la Banque de Constantinople. ”Nel 1927 la lingua ottomana – un misto di arabo e persiano – viene abbandonata e vengono adottati i caratteri latini”, e tutto cambia così come non è facile mantenere viva la memoria di questa gloriosa comunità che ha servito l’Impero ottomano. L’interesse ”nei nostri confronti però non manca”, ha sostenuto Baltazzi. ”Sia l’Italia che la Turchia si stanno interessando a questa comunità”. Grazie all’aiuto della Camera di Commercio italo-turca, ”abbiamo cercato di ritrovare le famiglie levantine che vivono ormai all’estero e le abbiamo invitate a parlare e a raccontare le loro storie”.