Dalle elezioni americane alla brexit, dalla cronaca all’economia non c’è ormai questione, interna o internazionale, che sia completamente estranea al tema dell’immigrazione. Una centralità nel discorso pubblico cui raramente però corrisponde un’adeguata attenzione e accuratezza da parte della politica e del mondo dei media, spesso influenzati da pregiudizi e da percezioni parziali o errate. Soprattutto al tempo della rete, tutto quello che riguarda immigrati viene infatti immancabilmente amplificato, alterato e qualche volta stravolto, come ad esempio nel caso dei famosi 40 euro – ma c’è chi dice 60, 70 o addirittura più – assurti nel tempo a simbolo di un presunto trattamento di favore dello stato italiano nei confronti degli stranieri (in questo caso richiedenti asilo). Proprio dall’esigenza di riportare in qualche misura il discorso nei binari della realtà sembra nascere il libro Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, pubblicato da Stefano Allievi e da Gianpiero Dalla Zuanna, rispettivamente sociologo e demografo all’università di Padova. Cos’è che viene taciuto oggi, secondo gli autori? Innanzitutto le ragioni profonde dei movimenti migratori, che affondano le radici non solo nelle guerre e nella fame, ma anche innanzitutto nelle esigenze delle società ricche. I numeri sono implacabili: nel prossimo ventennio, riportano gli autori, “per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (quella dai 20 ai 64 anni), ogni anno dovranno entrare in Italia – a saldo – 325.000 potenziali lavoratori”. In caso contrario addio pensioni, sanità e quel tanto o poco di benessere che ci siamo conquistati. Del resto già nel 2014 l’Istat stimava nell’8,8% del Pil il contributo degli oltre cinque milioni di cittadini stranieri all’economia nazionale: circa 123 miliardi di euro, a cui corrispondevano 16,6 miliardi di entrate fiscali e solo 13,5 di spese. Insomma “fare degli immigrati il capro espiatorio di vent’anni di declino economico – scrivono Allievi e Dalla Zuanna – è semplicemente sbagliato”. Tanto più, si aggiunge, che da sempre le popolazioni degli stati sono vasi comunicanti in cui continuamente si combinano entrate e uscite. Lo sa bene l’Italia con il suo forte flusso di espatri, fotografato dall’ultimo rapporto Migrantes: 107.529 concittadini, tra cui molti giovani, hanno lasciato il Paese nel solo 2015. Un male? Anche qui non necessariamente. E non è solo una questione di economia: in una prospettiva evoluzionistica l’Homo Sapiens, sottolineano Valerio Calzolaio e Telmo Pievani nel recentissimo Libertà di migrare, è una razza migrante per natura, caratteristica che nei millenni gli ha permesso di colonizzare il globo come nessun’altra. Tutte cose abbastanza note a chiunque si accosti alla questione delle migrazioni con un minimo di obiettività, ma che fa sempre bene ogni tanto aggiornare e ripetere. Allora però perché – sorge spontanea la domanda che fa in questo suo scritto Daniele Mont D’Arpizio nella news dell’ateneo padovano – buona parte della popolazione continua a vedere migrazioni e migranti come il fumo negli occhi? Perché praticamente in tutti i paesi occidentali un nutrito basket of deplorables, per citare la recente polemica tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Clinton e Trump, un “mucchio di deplorevoli” si ostina contro tutte le evidenze a dare credito ai populismi contro la voce della ragione? Si tratta semplicemente di una bugia da sconfiggere, di un racconto da cambiare, come suggerisce Emma Bonino nella prefazione di un rapporto dei Radicali Italiani sull’argomento? In realtà sono gli stessi Allievi e Dalla Zuanna a sottolineare che, al di là dei suoi innegabili benefici, anche l’immigrazione non è un processo neutro: ha i suoi costi sociali, i suoi vincitori e i suoi vinti. Che quasi sempre corrispondono, ha spiegato una volta al Bo lo storico ed esperto di politiche dell’immigrazione Simone Paoli, ai lavoratori autoctoni non qualificati, penalizzati nell’accesso al welfare e vittime del dumping salariale e dei diritti da parte dei nuovi venuti. Guarda caso stiamo parlando proprio del bacino elettorale principale dei movimenti populisti, se è lecito usare questa espressione. Che nascono almeno in parte come reazione identitaria alla globalizzazione, presentata come un processo ineluttabile, in nome della democrazia, cioè della insindacabile volontà popolare come ultima e dirimente parola su ogni questione. Un altro mito moderno questo che, assieme allo stato sociale e alla garanzia dei diritti individuali, soprattutto nel secondo dopoguerra aveva trovato la sua casa proprio nello stato-nazione, oggi definitivamente in declino.